Pintor e la Sardegna
16 Maggio 2013Marco Ligas
Inizio questo intervento partendo da lontano, dalla Signora Kirchgessner dove Luigi parla del suo approdo nell’isola dei mori, all’età di tre mesi, quando fu portato dalle acque in un cesto di vimini.Nessuno gli aveva mai detto niente di quello sbarco ma lui, scrisse, se lo ricordava(!): il cielo era terso, la banchina assolata e la luce bianca. Si ricordava anche la percezione di quel paesaggio, l’increspatura del mare sotto il maestrale e il profilo delle torri oltre la foschia. Sulla banchina c’erano figure in ombra, sapeva che erano donne, portatrici di affezione.
Nel 1966, al suo ritorno, invece gli andrà incontro un frastuono di macchine assiepate sul molo come greggi metalliche. Sicuramente il frastuono avrebbe sommerso il brusio della prima volta: il fatto è che il presente assorda il passato e lo nasconde dietro alte muraglie.
Perché queste sensazioni così diverse?
Provo qualche risposta. Intanto perché l’intervallo tra le due epoche è notevole ed è caratterizzato da fatti molto importanti e diversi: dopo l’arrivo a Cagliari e un’adolescenza serena, quella trascorsa in città sino al 1941, ci furono la partenza e il trasferimento nella capitale. Lì Pintor subì i primi lutti e la guerra, ci fu la scelta partigiana (con i gap) e comunista, la cattura e il rischio della condanna a morte: insomma un insieme di avvenimenti che si susseguirono con una rapidità e un’intensità incredibili che segnarono profondamente la sua vita.
In secondo luogo perché Il ritorno a Cagliari non fu una sua scelta. La subì, la subì con spirito di disciplina e per il vincolo forte che lo legava al Partito Comunista che non fu altrettanto generoso nei suoi confronti.
Erano altri tempi, i militanti del Pci erano persone disciplinate, non dei voltagabbana, rispettavano le decisioni del proprio partito, rispettavano i cittadini e il proprio elettorato, non erano abituati a criticare avversari come Mario Scelba per poi governare con lui. Luigi apparteneva a quella scuola, per queste ragioni tornò in Sardegna pur non condividendo la scelta del partito. Penso inoltre che il rientro imposto fosse accompagnato dalla preoccupazione di un’accoglienza non desiderata dal partito sardo.
Affronto due aspetti in questo ricordo: 1) l’impegno politico di Luigi in Sardegna; 2) il suo modo di vivere i rapporti con i compagni e gli amici, l’importanza e le priorità che attribuiva alla coerenza e agli stili di vita delle persone.
Pintor fu mandato in Sardegna perché la sua formazione politica diventasse più concreta, (si, perché la causa del suo dissenso, così dicevano i dirigenti del Pci, era l’astrattezza, il suo essere lontano dalla realtà, dai problemi dei lavoratori!). Insomma aveva bisogno di un rapporto diretto con la base del suo partito e con la società isolana, di un’esperienza sul campo e perciò gli venne dato l’incarico di occuparsi dei pastori e dei contadini sardi.
Un bel compito anche perché in Sardegna non è mai stato facile orientarsi tra le maglie intricate della rendita fondiaria, delle speculazioni degli industriali dei prodotti caseari, delle condizioni di vita dei contadini che disponevano di piccole proprietà o dei pastori che possedevano greggi di varie dimensioni. L’individuazione di una politica delle alleanze non era facile: il rischio di lotte inficiate da esigenze corporative era innegabile. Per di più nella metà degli anni sessanta l’isola viveva nuovamente una fase di recrudescenza del banditismo che il governo affrontava ancora una volta con misure repressive che alimentavano ulteriormente il malessere della società isolana.
Seppure talvolta a disagio a causa della complessità di questi problemi, P affrontò il suo lavoro con disponibilità e con un atteggiamento teso a verificare forme incisive di impegno politico e sociale e soprattutto con modalità diverse nelle relazioni tra compagni. Naturalmente Luigi non era così ingenuo da ritenere che un impegno contro la rendita fondiaria non comportasse, oltre le dichiarazioni di principio che tutti erano disposti a sottoscrivere, atteggiamenti più coerenti e anche conflittuali. Troppo spesso in nome dell’autonomia regionale e del piano di rinascita venivano sottoscritte mozioni unitarie inneggianti allo sviluppo dell’isola, ma nulla si faceva perché nella quotidianità i vecchi rapporti di produzione cambiassero. Consapevole di questo equivoco e che attorno alla rendita c’era una coalizione di interessi economici e politici, ben rappresentati da settori della democrazia cristiana, Pintor sottolineava l’esigenza di un movimento di pastori e contadini capace di un impegno sociale forte, in antitesi alle forze conservatrici. La sottolineatura di questa esigenza derivava anche dal fatto che nei gruppi dirigenti sardi coglieva una debolezza, una ristrettezza di idee, che le forze più giovani pagavano, come lui stesso sosteneva, attraverso chiusure e separatezze isolane. Arrivò a queste conclusioni non per scelte ideologiche, o per lo meno non solo per scelte di questa natura, ci arrivò in seguito ad un rapporto diretto con i pastori e i contadini; organizzava le riunioni su questi temi sia nelle sedi ufficiali dei partiti o delle associazioni ma incontrava le persone (e discuteva con loro) anche nelle strade dei paesi, nei bar dove i lavoratori si esprimevano con maggiore spontaneità e indicavano le difficoltà reali, le minacce e i ricatti, che subivano nei rapporti con i proprietari terrieri o gli industriali caseari. Pintor parla di queste cose nella rivista Rinascita Sarda ma ne parlano anche gli orgolesi su alcuni murales appositamente dedicati a lui come segno di solidarietà e stima per l’impegno profuso durante la permanenza nell’isola.
Luigi avvertiva dunque l’esigenza di precisare come la Regione non fosse di per sé uno strumento di democrazia o di progresso sociale. L’impegno della sinistra, del partito comunista, non poteva esaurirsi nella politica contestativa verso il governo centrale e nella rivendicazione di una maggiore autonomia: circoscritto in quella prospettiva l’impegno diventava sterile e ambiguo; era necessario farlo vivere a livello sociale, rivitalizzando un rapporto concreto con le fasce più deboli della popolazione. Più in generale era opportuno – diceva Pintor – ancorarlo alla prospettiva di un cambiamento radicale della società sarda.
È significativo che già 15 anni prima un tenace sostenitore dell’autonomia regionale come Renzo Laconi sostenesse che l’autonomia non ha un valore per sé stessa, ma lo assume se viene correlata ad una legislazione speciale che consenta la nascita di strutture e di ‘classi’ capaci di dar vita ad iniziative locali di trasformazione e di progresso economico e sociale. Senza queste condizioni – continuava Laconi – ‘gli istituti autonomistici si trasformano in un apparato oneroso e inutile e non è escluso che larghi strati della popolazione ricadano nell’errore di un falso unitarismo’.
Credo che queste valutazioni di Laconi non ebbero un largo seguito nel partito sardo.
Naturalmente gli interessi di P non si esaurirono intorno alle questioni relative alla vita dei pastori e dei contadini sardi o ai temi dell’autonomia regionale e del piano di rinascita. Pur coinvolto nelle attività dell’isola, continuò ad occuparsi dei temi più generali della politica.
Non dimentichiamo che Luigi tornò in Sardegna, e non per sua scelta, dopo l’XI congresso del Pci che segnò una tappa importante nella storia del partito.
Sul partito e sull’URSS non voglio ripetere ciò che ha detto Claudio Natoli. Del partito criticava i formalismi, il modo in cui si organizzavano le relazioni (e la linea del partito) tra i singoli compagni e quelle tra i vari organismi, tutte caratterizzate in modo unidirezionale, dal vertice alla base, secondo i canoni di un centralismo democratico che di democratico aveva ben poco. Luigi ruppe (o cercò di rompere) questo metodo, assunse un atteggiamento nuovo che in Sardegna fu accolto da molti compagni con estremo interesse e consenso. Il suo parlare senza veline, l’informarci del dibattito esistente su scala nazionale, delle posizioni dei diversi componenti della direzione e della segreteria, furono tutte cose che influirono notevolmente sulla formazione di un largo gruppo di compagni che furono coinvolti con più passione nel lavoro politico di quegli anni. Acquisimmo così l’immagine di un partito non più ingessato, non più chiuso nei formalismi di una direzione che poneva dei limiti al confronto, ma vivo nella sua dimensione reale. P non aveva alcuna intenzione di creare una frazione, le critiche che gli furono rivolte su questa questione erano ingenerose; piuttosto diversi compagni furono stimolati ad approfondire i temi ritenuti di maggiore attualità; la prospettiva era quella di mantenere aperto, dopo la sconfitta subita all’XI congresso, un confronto serrato all’interno del partito comunista. Le cose purtroppo non andarono così: il gruppo dirigente del Pci valutò meno pericolosa, ai fini della sua unità, l’esclusione del Manifesto dal partito e così decise per la radiazione.
Voglio sottolineare che intorno agli anni ‘68-‘70 la sezione Lenin, la sezione definita dei frazionisti, contava oltre 1300 iscritti, un numero notevolissimo in rappresentanza di diverse categorie di lavoratori. Questa forza si spiegava soprattutto col fatto che la sezione riusciva a promuovere un’attività politica e culturale molto intensa. E Pintor ne era indirettamente l’animatore. Venivano convocate assemblee a cui partecipavano centinaia di iscritti e, cosa per certi versi nuova, molti intellettuali, simpatizzanti e curiosi. I temi dibattuti coincidevano spesso con gli argomenti affrontati nel comitato centrale del partito: la proposta di dar vita ad un partito unico della classe operaia (avanzata da Amendola), la convocazione di una conferenza internazionale sui rapporti con la Cina e il PCC, le questioni dell’autonomia regionale, il rapporti col sardismo, ecc. Non è un caso che Bufalini, quando il Manifesto fu radiato, dichiarò che Cagliari era una delle quattro città (le altre tre erano Roma, Napoli e Bergamo) nelle quali «il frazionismo e le attività disgregatrici del gruppo del Manifesto avevano attecchito». Voglio soffermarmi un attimo sulla sezione Lenin: ho detto prima che Luigi ne era indirettamente l’animatore, ma la sezione era diretta da un gruppo di compagni molto legati al partito e al tempo stesso capaci di promuovere un’attività molto efficace e costruttiva. Nuto Pilurzu, Cenzo Defraia e Salvatore Chessa erano i dirigenti più rappresentativi della sezione. Furono subito radiati per attività anti partito. Franco Restaino ed Enrico Montaldo espulsi per aver criticato, con un’intervista al Corriere della sera, le scelte della direzione. Moltissimi compagni, tra i quali io stesso, lasciarono il partito e diedero vita al movimento del Manifesto in Sardegna: movimento che ebbe un’intensa attività anche attraverso un periodico “il manifesto sardo” che continuò a dibattere temi di attualità sarda e nazionale.
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Anche sull’URSS P diede un impulso importante al dibattito politico, una scossa. E nell’isola ce n’era bisogno. A nessuno di noi era mai capitato di sentire da un dirigente del partito che l’Unione Sovietica, soprattutto dopo l’invasione di Praga, intendeva estendere il suo impero dagli Urali sino all’Adriatico. P lo fece con durezza, consapevole degli effetti drammatici che l’invasione avrebbe provocato. Questi suoi giudizi ci costrinsero a rivalutazioni su aspetti che consideravamo dei capisaldi: l’URSS non più faro del socialismo ma concorrente degli USA nel controllo del pianeta; questo nuovo dato non si poteva accettare con leggerezza. E così il dubbio che la funzione propulsiva dell’URSS fosse esaurita non solo trovò conferma ma presto lasciò il posto alla consapevolezza che svolgesse funzioni di dominio nei confronti dei paesi fratelli. Ricordo queste cose per sottolineare la validità di un metodo di ricerca, quello di Pintor, che non può mai portare a conclusioni definitive, immodificabili nel tempo senza sottoporle a verifiche costanti.
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Comportamenti e stili di vita individuali. C’è un altro aspetto di P che voglio sottolineare: riguarda la contiguità tra la scelta politica/ideale necessaria per il cambiamento della società e il comportamento di noi stessi come singole persone che deve essere funzionale al cambiamento ipotizzato. Per spiegarmi meglio faccio riferimento ad una intervista che AM Pisano gli fece nel 1977. Annamaria era la moglie di Salvatore Chessa, il già citato compagno prematuramente scomparso nel 74. La domanda era questa:
Non credi che la collocazione sociale di molti che si ritrovarono nel Manifesto, la loro incapacità di far politica in modo sostanzialmente diverso da quella che era stata la loro attività all’interno del PCI, rendeva già dall’inizio difficile l’attuazione del progetto politico del Manifesto?
Questa la risposta:
Se c’è una cosa che abbiamo predicato fino alla noia, è stata la necessità di una rivoluzione culturale in tutta la sinistra, anzi nel corpo della società, e quindi in noi stessi come persone e come forza politica ed organizzazione nascente. Con questa formula di importazione (avremmo anche potuto dire riforma intellettuale e morale, e magari esistenziale) intendevamo una quantità di cose, relative alla ricerca di una nuova scala di valori (un nuovo modo di vivere, di produrre, di consumare), a un modo diverso di fare politica (tutto fondato sulla partecipazione diretta, sull’autogestione dal basso, sull’aderenza alla realtà sociale ed all’esperienza di massa) e così via. Ma intendevamo anche e soprattutto (o almeno io intendevo) anche un nuovo “stile” individuale. Ossia un rapporto più stretto (senza per questo cadere nell’astrazione o nel moralismo) tra le idee che si professano da un lato e la vita che si conduce dall’altro, cioè la propria collocazione pratica.
Per dirla più semplicemente, o magari paradossalmente, io non posso impedirmi di pensare, per esempio, che due professori universitari che guadagnano nello stesso modo, subiscono nello stesso modo lo sfascio dell’Università, non insegnano di fatto nulla a nessuno, partecipano insomma di una stessa condizione e collocazione intellettualmente, socialmente e politicamente negativa, non si distinguano sostanzialmente l’uno dall’altro anche se uno manifesta idee di sinistra e l’altro di destra. Per me la loro identità, la loro “funzione comune”, pesa di più delle loro diversità, come l’identità di due tifosi di sport è più evidente dell’essere uno laziale e l’altro romanista. Nel dire che ognuno è la sua collocazione sociale, intendo dire che tutti siamo condizionati oltre misura nella mentalità e nei comportamenti, dalle abitudini, dalle pigrizie, dagli interessi materiali, dai privilegi grandi e piccoli che sono connessi al nostro ruolo sociale. E credo che nessuno possa operare in modo rivoluzionario se in pari tempo non mette in discussione, almeno tendenzialmente, se stesso, il proprio ruolo, la propria collocazione, insomma la propria vita: se non compie cioè una rivoluzione culturale, anzi più di una, con costante verifica del rapporto che si stabilisce o non si stabilisce tra ciò che si dice e si pensa e ciò che si fa. Ciò vale soprattutto per gli intellettuali, naturalmente, ma vale anche a livello operaio, contro il corporativismo o l’economismo.
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Il pessimismo. Voglio fare ancora una considerazione su quello che viene definito il pessimismo di Pintor. Non so se la sardità può aiutarci nell’interpretazione. Credo che Luigi nel sostenere le sue idee fosse consapevole delle difficoltà di cambiare il mondo e le esplicitava a volte in modo ridondante. Questa modalità di comunicazione spesso induceva anche i suoi amici a dire che nel suo modo di vedere la realtà c’era una tragicità della vita. Ritengo sproporzionata questa affermazione, e anche sbagliata: chi la fa sottovaluta altri elementi. Uno riguarda la forza delle sue scelte ideali e la passione con cui le difendeva anche nei momenti più delicati della vita politica e personale. A Pintor non sfuggiva certamente il divario tra l’impegno per una società di persone libere e la possibilità che questo obiettivo si realizzasse: anzi col passare del tempo vedeva accentuarsi questa frattura e allontanarsi gli orizzonti di una società che mettesse al bando la sopraffazione e lo sfruttamento. Un altro elemento si riscontra nella scelta militante da lui operata di stare comunque in campo, anche nei periodi più difficili, quando aveva l’impressione che stessero per chiudersi tutti i varchi per una crescita della democrazia. È pessimista una persona capace di queste reazioni? Non lo credo, ritengo proprio di no; qualcuno vedeva nei suoi comportamenti un po’ di sardità che talvolta viene assimilata al pessimismo. Forse è così. Io ritengo piuttosto che in lui il pessimismo della ragione fosse del tutto complementare all’ottimismo della volontà: non c’era il primato del primo rispetto al secondo. A sostegno della mia ipotesi cito la premessa che troviamo ne ‘La signora Kirchgessner’: Si può essere pessimisti riguardo ai tempi e alle circostanza, riguardo alle sorti di un paese o di una classe, ma non si può essere pessimisti riguardo all’uomo.
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Concludo dicendo che il ritorno nell’isola, seppure originato da un atto punitivo, gli fece riscoprire il rapporto con la città dell’infanzia e dell’adolescenza. E fu come ritrovare radici antiche ed entrare in rapporto con la memoria e con un mondo di favola, quello che da ragazzo gli consentiva di fare lunghe scorribande in una città senza confini e col mare sempre a disposizione. La riscoperta di Cagliari gli darà sensazioni fortissime e ogni volta che rivisitava la città si poteva cogliere in lui l’emozione per un rapporto o un ricordo ritrovati.
Chi ha conosciuto Pintor ha potuto notare come con lui venisse meno la separatezza tra il rapporto politico e quello personale; la condivisione di relazioni tra le persone per lui significava mantenere contigue le due sfere sino ad intrecciarle: e proprio su queste basi in città ha sviluppato e mantenuto rapporti di amicizia che si sono protratti nel tempo. Questo aspetto del suo comportamento è stato accolto, sin dal suo arrivo in Sardegna, con estrema simpatia da tutti i compagni che poi lo seguiranno nell’esperienza del manifesto. E’ nel corso di questi rapporti che emerge il ruolo di Pintor animatore, punto di riferimento, persona dagli interessi molteplici e al tempo stesso capace di stimolare mille curiosità. Credo che sia il messaggio migliore che lascia a tutti, ma soprattutto alle giovani generazioni, perché difendano con convinzione le scelte ideali fatte e accentuino l’impegno per realizzarle. Mi fa piacere , diceva Luigi, che il Manifesto sia nato anche in Sardegna, nel lavoro comune con i compagni cagliaritani. Anche umanamente è importante per me che quel legame non si sia mai incrinato, né sul terreno politico né su quello personale, a differenza di quanto è accaduto altrove ed anche al giornale, non senza una certa amarezza per me. Penso anche che il Manifesto abbia favorito una maggiore apertura riguardo a quella dimensione nazionale e generale dei problemi e delle lotte che in Sardegna tende spesso ad appannarsi.
17 Maggio 2013 alle 06:47
Ho letto tutti gli interventi su Luigi Pintor, così mi sono reso conto che la giornata dedicata a lui non poteva essere migliore. Complimenti.
18 Maggio 2013 alle 23:33
persone come Luigi Pintor con il loro coraggio e la loro tensione quotidiana nel vivere i loro ideali si stagliano come giganti a paragone di quanto si vede nel panorama politico attuale.
Le idee possono anche esser criticate, ma il disinteresse e l’altruismo costituiscono ancor più ora un’indicazione per chiunque voglia far politica e occuparsi della “res publica” nel senso migliore del termine.
Bene ha fatto “Il Manifesto Sardo” a parlarne e a farne parlare, anche come stimolo nella pochezza di oggi.
20 Maggio 2013 alle 07:28
[…] giornata del 15 maggio scorso in ricordo di Luigi Pintor a Cagliari, seppur vissuta con un dolore sottile dentro tutti noi, non è stata una commemorazione […]
17 Ottobre 2013 alle 10:20
[…] di Annamaria Pisano a Luigi Pintor (1977) riportata da Marco Ligas su “il manifesto sardo”, speciale del 16 maggio 2013. L’argomento è così sintetizzato da Marco: “riguarda la contiguità tra la scelta […]