Politici a pezzi

2 Settembre 2020

[Marinella Lorinczi]

Intendevo iniziare diversamente. Volevo descrivere un numero di un bimensile romeno destinato a circolare soprattutto all’estero (“Tribuna României”), fondato nel 1970-’71 e sospeso nel 1990.

Tempo addietro ho ritrovato per puro caso il primo numero dell’anno 1989, conservato da allora tra carte, fotocopie e appunti di lavoro. Il contenuto di quel numero del primo gennaio 1989 mette non solo a disagio ma fa venire i brividi, se si pensa a come si è concluso in Romania quell’anno, durante le tragiche feste natalizie o, come si usava dire in politichese laico, feste invernali: il 25 dicembre venivano fucilati i coniugi Elena e Nicolae Ceauşescu con le mani simbolicamente legate (vedi al minuto 5:20), a cinque minuti dalla conclusione di un processo militare sommario (e non pubblico, come preannunciato), teletrasmesso poco tempo dopo ma solo parzialmente (ricordo di averlo visto negli ultimi giorni della ‘rivoluzione’, dall’Italia); le immagini finali, con i due corpi riversi a terra, sarebbero state rese pubbliche in un secondo momento. Lo stenogramma del processo è leggibile qui.

Ma proprio durante i primi mesi della pandemia si poteva assistere, tra lo sbigottito e lo scandalizzato, alle vicende imprenditorial-giudiziarie di Irene Pivetti, che – si apprende – non sono nemmeno dell’ultima ora, ma sotto fattispecie diverse iniziano qualche anno fa. Presidente della Camera dei deputati tra il 1994-1996, la più giovane nella storia dello stato, la trentunenne politica italiana era allora tutta casa, chiesa, parlamento e Lega. Su di lei la stampa estera – lo ricordo benissimo – spendeva parole elogiative, pronosticandole non solo una brillante carriera politica personale, ma includendola nei famosi “top cento, duecento ecc.”, in questo caso della coeva e futura politica internazionale, vista la sua giovane età. Ma dal fulgido top politico si è arrivati, a tappe, al miserabile flop imprenditoriale, con soste intermedie nella televisione (tra Mediaset, La7 e – ovviamente – Rai1 dove faceva l’opinionista; ma chi non ce l’ha un’opinione?), a volte fasciata in una deplorevole e ridicola mise sadomaso. La si dovrebbe smettere di fidarsi delle classifiche, più p meno improvvisate, di questa o di quell’altra agenzia, fondate su chissà quali criteri. Sembrerebbe meno imprudente, invece, affidarsi qualche volta alle forti impressioni del momento, al ‘sesto’ senso che somma semplicemente informazioni fresche e contestualizzate. Quando ad un certo punto la serie dei sobri e castigati tailleurs da ruolo istituzionale di Pivetti è stata interrotta da un vistosissimo abito da sera rosso fuoco indossato durante una prima de La Scala ed esibito nel palco “reale”, qualcosa pareva incominciare ad andar storto e suonò il campanello d’allarme; ma per il gossip genuflesso esso, l’abito, e di conseguenza essa, la persona che lo indossava, ’illuminavano’ il teatro. Nello stesso settembre del 1996 in cui viene espulsa della Lega, di lei si continua comunque a scrivere che “la loro [della Lega] giovane Pivetti era stata eletta presidente della Camera” (their young Irene Pivetti was elected president of the lower house; http://www.giogia.com/PadaniaNorthernItaly.html, 8) nel contesto della coalizione, risultata allora vincente, con Forza Italia e Alleanza Nazionale. In un volume del 2002 (

Succedeva più o meno questo (o, meglio, anche questo, nel sottofondo, ma collegato a suon di milioni alla catastrofe sanitaria italiana e mondiale) mentre sfogliavo quel numero sopravvissuto di periodico romeno, in cui si descrivevano i grandi successi raggiunti dalla Romania e dal suo popolo sotto la guida di Ceauşescu (nato nel gennaio del 1918), a cui è stata associata ad un certo punto, dal 1979, anche sua moglie Elena (nata anche lei in gennaio, nel gennaio del 1916). Ammettendo che si possano paragonare le cose grandi a quelle piccole, la loro discesa è stata invece ripida e mortale. Ma il primo gennaio del 1989 la loro situazione appariva stabile, ovvero veniva presentata come politicamente stabile.

Guardando un documentario del 2015 che utilizza materiali di archivio e che s’intitola 1989 – Un timp sărit din calendar “1989 – tempo fuggito dal calendario” (https://www.youtube.com/watch?v=EIjUlQbeeyo, di Liviu Tofan, 50’), si vede e si ascolta un Ceauşescu provato, dalla voce flebile e incerta; con questa voce, leggendo a stento anche perché le luci dello studio lo disturbavano, pronuncia il discorso augurale di fine 1988, in cui dà risalto anche ai risultati raggiunti “nella costruzione del socialismo”. Il 31 dicembre 1988 tutti i notabili del paese brindano al nuovo anno. Il documentario del 2015 presenta anche le più importanti contestazioni e proteste, collettive ed individuali, al regime di Ceauşescu, gli scontri e gli oltre mille morti che segnano il 1989, fino agli ultimissimi giorni di dicembre, quando inizia la costituzione di un nuovo governo, risorto dall’interno dell’élite precedente. “Dove è andato a finire il partito comunista? C’è … c’è … ma non si vede per la troppa rivoluzione!” Questa è una delle frasi finali del documentario (46:30) nel tipico stile sarcastico romeno-levantino (aggiungerei: caragialesco https://en.wikipedia.org/wiki/Ion_Luca_Caragiale, ma è troppo complicato riassumere lo stile satirico del grande scrittore romeno).

Riprendiamo dal gennaio del 1989. Nel gennaio (del 1850) era nato anche Mihai Eminescu, il poeta nazionale romeno, “the supreme, concentrated expression of Romanian-ism” nell’opinione di molti: lo ricorda il famoso storico romeno e filosofo della storia Lucian Boia (a p. 6 del suo libro che cito più avanti col titolo completo). Eminescu (1850-1889) aveva Eminovici come cognome di nascita, nome dall’allure slava (confrontare con Mihajlović). E’ stato sostituito con Eminescu, con il cambiamento della parte finale, da slava in romena. Ma diamo a ciascuno il suo, nello stile delle rivalità nazionalistiche romeno-magiare. La stessa operazione di deslavizzazione onomastica l’aveva intrapresa decenni prima anche il poeta nazionale ungherese, Sándor (Ales/sandro) Petőfi (1823-1849, morto in battaglia), nato da genitori di origine slovacca, il cui padre si chiamava Petrovics (ossia Petrović). Tornando a Eminescu, il poeta romeno muore anche lui giovane nel 1889, per cui nel fatale anno 1989 si sarebbe celebrato il centenario della sua scomparsa.

E infatti, il numero di rivista menzionato si apre e si chiude con Eminescu: sulla prima pagina il canonico ritratto del poeta (che era stato anche giornalista), tratto probabilmente da un dagherrotipo, circondato da immagini simboliche tra cui la colomba della pace; sull’ultima pagina viene riprodotto un brano di un suo poema celebre. E tra i completamenti a queste due pagine dedicate al poeta c’è l’articolo di fondo del redattore capo Petre Ghelmez (1932- 2001), noto scrittore per bambini tra le altre sue attività, il quale riporta anche che “Il Presidente Nicolae Ceauşescu affermava recentemente che nel prossimo decennio 1991-2000 la Romania passerà alla costruzione della seconda fase della società socialista multilateralmente sviluppata, per cui la fine di questo millennio e gli inizi del terzo saranno testimoni di «un paese multilateralmente sviluppato sulla base delle più recenti conquiste della scienza e della tecnica, delle conoscenze umane in generale, avente un alto livello di civiltà materiale e spirituale».” Tutto il popolo vi collaborerà – si prosegue – desideroso com’è di realizzazioni serie, durature ed apportatrici di benessere. E così via in questo messaggio di inizio anno “umano, caloroso, vivo e che innalza lo spirito”, formulato nello stile rigido e vacuo del linguaggio ufficiale, studiato a lungo da storici e politologi (cfr. https://fr.wikipedia.org/wiki/Langue_de_bois).

Nel suo History and Myth in Romanian Consciousness (Central European University Press, 2001, 2013, in rete), il già menzionato Lucian Boia discute a lungo di Eminescu, poiché, al di là ma anche indipendentemente dal suo mitico valore artistico, “Spirits got heated almost to incandescence around the figure of Eminescu. “ (p.6). Andando oltre, egli sostiene che l’ideologo Eminescu, ma non il poeta, era “autochthonist and xenophobic” (p.7), ovvero, riassumendo, nazionalista che si sente parte di un popolo che storicamente “evita ogni mescolanza con gli stranieri” (“shuns any mixing with foreigners”, p. 37; per inciso, gli slavismi, magiarismi, turchismi, grecismi storici della lingua romena a cosa sarebbero dovuti?); e che “As an ideologist [anche se non agiva da teorico], Eminescu was ‘discovered’ by the nationalist wave after 1900. And nowadays he is still promoted by nationalists.” (p.7). Certamente, il suo nazionalismo non era un caso isolato, nella seconda metà dell’Ottocento che ha elaborato i presupposti ideologici della Grande Guerra. Ma alcuni cercano di spiegare che il nazionalismo di Eminescu sarebbe invece da intendersi come puro patriottismo autentico, come “love for his own nation; patriotism” (Vasile Bahnaru, Naţionalismul în publicistica lui Mihai Eminescu. Analiză semasiologică şi pragmatică, 2018).

Il patriottismo emineschiano costituisce, infatti, l’aura concettuale di quel vecchio numero del periodico “Tribuna” di cui qui si sta raccontando:

Qual’è il mio augurio, dolce Romania, / A te, patria gloriosa, bel luogo sognato? / Braccia muscolose e forza come arma; / Grande sia il futuro d’un eroico passato!” L’augurio, espresso nel 1867 da un poeta appena diciassettenne, andava dai lettori recepito a cavallo del 1988-1989 come formulazione poetica anticipatrice del pensiero e del discorso di Ceauşescu.

Le date, infatti, si mescolano. Eminescu e i coniugi Ceauşescu nascono in gennaio. A loro tutti, magico trio, la redazione di “Tribuna” offre una seconda pagina piena di “fiori”, brevi testi in poesia e prosa, nonché riproduzioni di quadri e di ricami floreali. Nella terza pagina campeggiano Nicolae ed Elena: lui, a sinistra, come politico, in compagnia del presidente del Comitato permanente dell’Assemblea popolare suprema (il parlamento unicamerale) della R.P.D. di Corea (Corea del Nord); lei, sulla destra ma in una foto da giovane, come studiosa, dott. ing. membro dell’Accademia delle scienze romena (e la cui fama scientifica “internazionale” era stata sottoscritta senza alcun ritegno nel 1980 anche dall’allora presidente dell’Accademia dei Lincei, Antonio Carrelli, uno tra i tanti altri, ma il numero non lo giustifica comunque; https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1990/03/17/elena-ceausescu-accademica-italia.html).

L’omaggio esplicito viene tributato a Elena: “Festeggiando il 7 gennaio il compleanno dell’acc. dott. ing. Elena Ceauşescu, il popolo romeno esprime i più calorosi sentimenti di rispetto e di apprezzamento nei confronti di una scienziata e di una politica patriota, la quale ha militato e milita senza tregua, a fianco del capo dello stato romeno, il presidente Nicolae Ceauşescu, per il progresso del paese, il rafforzamento dell’indipendenza e della sovranità nazionali, per l’affermazione dei nobili ideali di pace, di amicizia e di collaborazione tra tutte le nazioni del mondo.” (p. 3).

Ma stavano sbocciando nella patria romena anche altre ragazzine geniali. L’intera quinta pagina è dedicata alla pianista di dieci anni Mihaela Ursuleasa. Come sarebbe evoluta la sua carriera dopo il 1989? Brillantemente, ma troncata tragicamente nel 2012, a Vienna, da un’emorragia cerebrale. Più fortunata di lei è stata la ginnasta pluricampionessa mondiale Daniela Silivaș (nata nel 1972), celebre in quel momento per aver conquistato sei medaglie, di cui tre d’oro, ai giochi olimpici di Seul del 1988. Dopo un incidente al ginocchio, che non le impedisce di partecipare con successo ad altre gare nel 1989, e dopo la conseguente operazione, è costretta a ritirarsi nel 1990-91: il rinomato Centro nazionale di allenamento di Deva (Transilvania), un centro di assoluta eccellenza per la ginnastica da dove proviene anche la straordinaria giovane Nadia Comăneci, viene chiuso (successivamente riaperto con una denominazione diversa). Come mai? Purtroppo, su questa vicenda strana e sicuramente torbida non esiste una wikivoce romena.

Per il resto, gli articoli di “Tribuna” sono abbastanza bilanciati tra protagonisti maschili e femminili della cultura, presa in senso ampio, del passato e del presente, eventualmente da commemorare o da celebrare nel 1989. Ma il reportage più importante è dedicato, su due pagine intere, ai lavori di costruzione e di ampliamento della metropolitana di Bucarest. “Nel 1990” – viene annunciato con orgoglio nel gennaio 1989 – “ viaggeremo anche lungo la terza asse, in treni costruiti a Arad, sorvegliati da dispositivi elettronici prodotti a Bucarest e Timişoara, tutto questo realizzato su progetti autoctoni.” Naturalmente viene ripercorsa la storia dell’opera grandiosa, che sarebbe (stata) effettivamente grandiosa, oltre che indubbiamente utile, se non fosse stata realizzata nel contesto di una criminale politica sociale, economica e urbanistica portata avanti dal regime di Ceauşescu, in cui il “vampiro” politico – sempre che si possa riproporre questa sciocca ed inopportuna metafora utilizzata dal giornalista del “Corriere” Antonio Ferrari nel 2017 – non è soltanto Elena (per come si esprime A. Ferrari), ma la coppia Ceauşescu con tutto il loro entourage. L’intero paese viene ‘vampirizzato’ negli anni ’80, vale a dire impoverito, dissanguato economicamente, umiliato, in parallelo con la realizzazione di costosi scempi abitativi urbani e rurali, con la distruzione di quartieri storici della capitale per far luogo alla megalomanica Casa del Popolo (ora Palazzo del Parlamento, l’edificio più pesante al mondo) circondato dal suo nuovo quartiere in stile ‘nord-coreano’. Si viveva di fatto, citando le parole del noto scrittore Mircea Cărtărescu (n. Bucarest 1956 – invitato nel 2016 al Festival di Gavoi), in una “società multilateralmente deformata” (da una sua conferenza del febbraio 2020). Altri avrebbero etichettato il nono decennio romeno del Novecento come “il decennio satanico”. Virando sul personale, ricordo la quantità di pacchi che inviavo in quegli anni ai miei genitori, che pur abitavano nella capitale.

Questa era la situazione agli inizi del 1989. Durante quell’anno il poeta Mircea Dinescu (n. 1950) pubblica ad Amsterdam, ed. Rodopi) un volume di poesie; in una di esse così riflette:

“La Storia pare che ci porti in pancia

e par’ che non ci voglia partorire,

i beati dalla vista corta, della mancia

sorseggiano il dogma, agro da morire.

…………………….

se abbiamo fame [il Folle criminale] ci disegna un pesce,

quando fa freddo, fa arrestare il clima,

Ferma la Storia! – scendo molto prima

Alla fermata di Dio-ci-protegge.”

(Dio-ci-protegge, Doamne-Fereşte)

A metà dell’anno, nel giorno di decesso del poeta Eminescu, il 14 giugno, si tiene una solenne conferenza, durante la quale “figure squallide della cultura di partito e di stato proferiscono banalità sul «poeta nazionale»”. Ma il pensiero e i discorsi degli oratori, partendo da Eminescu, sono costantemente rivolti al Partito comunista romeno, anzitutto a Nicolae Ceauşescu, poiché il culto di Eminescu sarebbe, secondo il commento dell’articolista, soltanto una declinazione estetica del culto di Ceauşescu, geniale guida del paese. Riassumendo, quest’incontro commemorativo-celebrativo non riguardava tanto Eminescu (che ne era piuttosto il pretesto) ma era un elogio e un’adulazione corali dei partecipanti rivolto al capo dello stato romeno, poiché Ceauşescu svolgeva anche questa funzione.

Trascorrono altri mesi. Il nove novembre cade il muro di Berlino, altri eventi decisivi avvengono nello stesso mese in Cecoslovacchia, in Bulgaria, ma anche in Italia col cambiamento di nome del PCI. Della fine sanguinosa dei coniugi Ceauşescu si è già detto. Nel 1994, il sessantacinquenne Constantin Manea, segretario personale e capo gabinetto di Nicolae Ceauşescu, così testimonia: “Mi sono passate tra le mani migliaia di libri dedicati a Ceauşescu, dal fior fiore della cultura romena, a cominciare da Arghezi. Inoltre, lodi entusiastiche dall’estero. Tutto ciò ha alimentato la sua la fiducia nella propria sopravvalutazione, quindi il culto della personalità. Anch’io ho apprezzato Ceauşescu per le sue qualità e ho sofferto per i suoi difetti, perché anch’io li vedevo.” Alla fin fine – commenta l’articolista – l’unico che non ha rinnegato Ceauşescu e che gli è rimasto fedele fino alla fine è stato soltanto Constantin Manea, l’ex apprendista ferroviere di Brăila e suo capo gabinetto per quasi trent’anni.

In queste immagini, l’apologia e la fucilazione.

Approfondimenti.

Alberto Basciani, Successo e appannamento dell’immagine di Nicolae Ceauşescu in Italia 1964 – 1989, in DIALOGOI POLITIKÉ, 7, Aracne ed., 2015, pp. 67 – 78.

Antonio Ferrari, “La mia intervista più imbarazzante [del 1984]: Nicolae Ceausescu”, 2017.

Tony Judt, Postwar. La nostra storia 1945 – 2005, Laterza, 2017 (originale inglese del 2005), pp. 767 – 772.

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