“Poltrone e potere, vergogna del Pd”: parole del segretario del partito
5 Marzo 2021[Ottavio Olita]
“Dagli amici mi guardi Dio, che dai nemici mi guardo io”: per molte settimane, se non per mesi, ma soprattutto dopo aver concorso a varare il governo Draghi, Nicola Zingaretti deve averlo pensato.
Alla fine, quando si è reso conto che nel partito da lui guidato non si potevano più distinguere gli uni dagli altri ha gettato la spugna. Forse è un gesto strumentale, per poter uscire rafforzato dalla prossima assemblea nazionale del partito, ma se così non fosse ci sarebbe davvero da chiedersi se quella denuncia così forte venuta dal principale dirigente non rappresenti un quadro disperante da cui solo una rifondazione completa potrebbe rimettere insieme i cocci di quella forza politica. Zingaretti ha scelto parole durissime. Senza mezzi termini ha detto di vergognarsi perché si è trovato ad esser il segretario di un partito impegnato solo a occuparsi ‘di poltrone e potere’ mentre il Paese è alle prese con una contingenza sciagurata fatta di decine di migliaia di vittime da pandemia, ospedali e personale sanitario allo stremo, perdita di posti di lavoro, chiusura di imprese.
Una situazione interna al partito evidentemente giudicata irreversibile, dalla quale non si potrà uscire con pannicelli caldi e pacche sulle spalle gratificanti. Servirà una riflessione politica profonda su obiettivi e strategie. Certo, sorge il dubbio che tutto questo nasca dai nostalgici renziani che sono rimasti nel Pd, le quinte colonne del grande demolitore, quel Junio Valerio Borghese in sedicesimo che invece dei Mas, i motosiluranti impiegati nella seconda guerra mondiale, usa tatticamente agguati politici distribuiti nel tempo. Nostalgici come quel Luca Lotti che allora non si era capito perché non avesse seguito il suo mentore quando decise di abbandonare il Pd. Sarebbe dovuto servire all’interno e così sta facendo. Lunga pratica di politiche di logoramento, cominciata con Bersani, proseguita con Enrico Letta, fino al teatrino ipocrita montato per far cadere, con Conte, l’alleanza che lo sosteneva.
Fondate o strumentali che fossero, le critiche alla rappresentanza Pd nel nuovo esecutivo, priva di donne, in realtà hanno nascosto la vera ragione politica del voltafaccia al segretario: la conferma dell’alleanza con Cinque Stelle e Leu, la conferma della stima all’ex premier Conte, addirittura il rimpasto della giunta regionale laziale con l’ingresso di esponenti pentastellati.
E l’elettorato? Gli inguaribili, inossidabili sognatori di un progetto politico democratico che si regga su un nuovo impegno sociale, un ricostruito rispetto per i lavoratori che vedono quotidianamente diminuire forme di tutela e garanzia, investimenti per il sud, occupazione giovanile e femminile, lavoro e salute, ambiente, vengono posti di fronte ad una cruda realtà che avrebbero definito falsa se descritta dall’esterno. L’accusa proviene invece dalla massima autorità del partito.
E’ per loro e per tutta quella variegata e vasta area che si richiama alla ‘sinistra’ che non sarà sufficiente liquidare le parole di Zingaretti come lo sfogo di un leader stanco e amareggiato. E’ ora che questo partito, che si è rinchiuso sempre più in se stesso in una logica di gestione del potere lontana da qualunque confronto con i cittadini, al massimo con compiacenti comprimari nei salotti televisivi, si rimetta in discussione per programmare un futuro in cui la stella polare per l’orientamento riprenda ad essere la Costituzione. O si fa ora, nel pieno di questa terribile emergenza che ha costretto ad alleanze innaturali, oppure sarà troppo tardi.