Portatrici d’acqua
16 Giugno 2013Silvana Bartoli
L’immagine, già usata per l’articolo precedente, raffigura un’opera dello scultore Giulio Branca. Rappresenta la moglie di Antonio, Fulvia, la quale, alla notizia che il nemico del marito era stato ucciso, affermò che la morte non era sufficiente, pretese la testa mozzata di Cicerone e, avutala tra le mani, si dedicò a trafiggergli la lingua con un chiodo: con quella parte del corpo aveva insultato il suo adorato marito.
Non tutte le donne sono vittime degli uomini, molte sono complici del maschio violento e scambiano la complicità per emancipazione.
Con quel gesto Fulvia, ma è inutile chiamarla col suo nome, meglio chiamarla “moglie di”, diventa a pieno titolo leader delle portatrici d’acqua: la “moglie di” è simbolo riassuntivo di tutte le donne che si identificano negli interessi del marito.
Le donne di mafia e camorra, ad esempio, che si fanno prestanome, postine, cassiere di fratelli, mariti, figli, padri; una criminalità femminile i cui contorni meritano molta attenzione.
Le donne, ad esempio, impegnate a sostenere una religione che le disprezza, che si è inventata un’immagine femminile inesistente e l’ha collocata su un altare per tenere le altre lontane dalle poltrone; che ha costruito uno stato in cui il potere può essere solo in mano a uomini e non applica la giustizia contro maschi che si macchiano di orrendi delitti sessuali.
Le donne, ad esempio, che indossano un velo dicendo che è una scelta: di religione, d’identità, di libertà addirittura, ignorando che i veli, d’oriente e d’occidente, sono costruzioni maschili pensate per nascondere ciò che si considera peccato o proprietà privata; il velo è sempre simbolo di sudditanza femminile, e dietro l’imposizione del velo c’è l’ossessione del sesso proibito.
Chi si è illuso sulle primavere arabe, non si è accorto che le donne in piazza erano quasi tutte velate, vedi la “moglie di” Erdogan, ovvero erano in piazza per ordine del marito cui appartengono e del capo spirituale a cui il marito fa riferimento.
Quelle donne si fanno portatrici di un’acqua a cui non potranno mai attingere, gratificate dall’ombra di “lui”, illuminate a tratti dalla sua luce riflessa. È un modo per evitare ogni assunzione di responsabilità personale, racchiuse nel bozzolo protettivo di un’arcaica cultura maschile che considera “l’uomo” neutro e universale e quindi in diritto di definire la condizione femminile, la sua specificità.
Mi chiedo cosa succederebbe se una donna si azzardasse a scrivere una lettera circolare per definire e normare la “dignità dell’uomo”.
Eppure molte donne si sono sentite gratificata dall’enciclica Mulieris dignitatem che esprime un’idea offensiva del femminile, bisognoso di norme e regole maschili per trovare il suo posto e senso nella creazione, che teorizza come valore religioso l’antichissimo archetipo della sottomissione femminile, e molte devote l’hanno interiorizzato come dogma spirituale guardando con sospetto anche la parola femminismo.
“La femmina offre la materia, il maschio la forma” diceva Aristotele, “nel grembo della madre sta la sapienza del padre” dice la religione cattolica, e la madre-sempre-vergine diventa un utile fornetto il cui merito principale sta nel parlare il meno possibile.
Inutile nasconderci che molte sono le donne desiderose di posizione subalterna, quella che è stata definita la “patologia del focolare” per la quale è stata pensata la casa di Barbie: le bambole non sono mai semplici giochi, spiega l’antropologia, e questa in particolare è la “fidanzata bamboleggiante o mogliettina rampante” sempre all’interno di confini e limiti stabiliti da altri.
A metà Ottocento Cristina di Belgiojoso scrive un saggio sulla Condizione delle donne. Era da poco tornata dall’esilio in Tuchia che le aveva consentito di guardare gli harem senza il velo dell’immaginario diffuso dalle Mille e una notte o altri racconti orientali. Cristina descrive con lucidità la condizione di donne inconsapevolmente sudice e schiave, essendo prive di specchi e di confronti con altre realtà femminili. Ma Cristina è assolutamente schietta anche nel descrivere le usanze occidentali.
Come le donne dell’harem, anche le occidentali appaiono desiderose di servire una società patriarcale che le prepara fin da bambine ad un ruolo funzionale: graziose e stupidine da giovani per diventare poi fattrici al servizio dei mariti. Cristina vede nitidamente i confini della prigione, sia pure dorata, nella quale molte sue pari ambiscono collocarsi, e trova assurdo che impegnino il meglio delle loro energie per diventare oggetti docili da esibire in salotto, nella speranza di conquistare il matrimonio. L’esperienza l’aiutava a guardare con distacco quelle che si affannavano a farsi complici del padrone che veniva loro dato per marito; abituate fin dall’adolescenza a considerare le battute volgari degli uomini come un omaggio al «gentil sesso», non erano trattate con maggior rispetto delle donne turche: anziché odalische potevano diventare serve furbette. Quelle almeno non avevano specchi, ma queste? Cristina aveva gli occhi ben aperti sulla condizione delle donne meno privilegiate di lei, certo sarebbe anacronistico arruolarla nel femminismo ma è difficile non cogliere la valenza trasgressiva del suo dire “io sono una donna”, là dove non era previsto. Cristina fu scrittrice, ma non ebbe mai l’ambizione servile di scrivere come un uomo, pensava invece che l’ignoranza fosse la causa primaria della sudditanza femminile e che l’educazione avrebbe cambiato tutto.
La conoscenza del passato dovrebbe insegnare anche a vedere gli errori commessi da una cultura responsabile della violenza sulle donne: bisogna modificare la mentalità di molti maschi certo, ma anche di molte donne perché la violenza trae nutrimento sia dall’esercizio del potere sia dall’accettazione della sudditanza. Il percorso di emancipazione maschile si presenta ancora molto lungo e non è utile che l’emancipazione femminile segua percorsi maschili.
Troppe, ancora oggi, sono disposte a subire di tutto pur di tenersi quell’uomo; troppe ritengono un valore annullarsi negli interessi del marito o padre.
Come la figlia dell’uomo potente che si è dichiarata orgogliosa di un padre che si rivolge a una donna chiedendo “quante volte viene?”. Indirizza anche a lei o alle sue amiche la stessa domanda?
Eppure a Corigliano Calabro, durante il funerale di Fabiana uccisa e bruciata dal “fidanzato”, è stata una donna a urlare: “Basta, dobbiamo denunciare gli abusi degli uomini, non coprirli o difenderli”.
Ma forse alla figlia dell’uomo potente è del tutto inutile parlare, lei cerca solo di proteggere un padre anziano, costretto a sborsare milioni per avere compagnia.
Alle altre val pena di ricordare come fu premiata la dedizione della “moglie di” Antonio: il marito le preferì Cleopatra, e lei rimase senza padrone.