Noi, potenziali Daniel Blake
1 Novembre 2016Eva Garau
“Stiamo assistendo alla demonizzazione delle persone più vulnerabili nella nostra società”. Ken Loach lo ripete come un mantra, con l’espressione calma in cui la rabbia è velata da quell’understatement che da sempre lo caratterizza. Lo dice durante il talk show Question Time della BBC, quando accusa il governo di manovre segrete mirate ad assicurare alle industrie (la Nissan) la copertura finanziaria necessaria a superare gli effetti della Brexit mentre rifiuta qualunque sostegno ai cittadini in difficoltà.
È di questo che parla il suo ultimo film, Io, Daniel Blake, uscito il 21 ottobre nelle sale del Regno Unito e già al centro di polemiche incrociate. Parla di persone che da un giorno all’altro si ritrovano impigliate nella ragnatela inestricabile della burocrazia. Di persone che perdono il lavoro a causa della crisi o per ragioni di salute e finiscono nel mondo sotterraneo di chi non ha voce, di chi si vede costretto a fare la fila per la prima volta in una food bank di periferia, di chi da un giorno all’altro non può più permettersi di pagare le bollette e trova nello Stato un controllore inflessibile e non un rifugio sicuro. Loach ci mostra il protagonista alle prese con una sequenza kafkiana di procedure paradossali in cui i cittadini sono considerati truffatori fino a prova contraria e come tali vengono guardati con sospetto.
Ma la divisione che spacca la società non si apre solo tra “chi lavora” e chi, nella vulgata comune, “approfitta dello Stato” nel momento stesso in cui chiede aiuto o, più precisamente, reclama un diritto. Gli impiegati delle agenzie private che si occupano (attraverso appalti esterni) di evadere le nuove richieste di sussidi sono essi stessi automi, costretti a raggiungere obiettivi standard e a ottimizzare tempi e costi. Così a un anziano in cerca di informazioni si ripete l’indirizzo email del sito del governo dal quale stampare il modulo che l’impiegato potrebbe prendere allungando una mano, perché queste sono le regole, perché le regole vanno seguite e chi non le rispetta, chi perde la calma, chi protesta, può essere sanzionato. E essere sanzionati significa vedere i pagamenti sospesi per un periodo che va dalle tre settimane ai tre anni.
La stampa di destra e i tabloid accusano il regista, palma d’oro a Cannes per questo suo ultimo lavoro, di populismo, di calcare la mano nella caratterizzazione negativa dei burocrati dello stato. Sono solo attori. Sono attori che recitano bene, quelli che nel film interpretano la parte dei dipendenti statali che interagiscono, in maniera asettica e implacabile, con il pubblico. E recitano bene perché Loach li ha scelti tra quanti hanno deciso di lasciare il proprio lavoro per il governo perché non trovavano più sostenibile l’approccio paternalistico e quasi denigratorio al quale erano costretti ad attenersi.
Quella che emerge è una società in cui la compassione non trova espressione, uno scenario profondamente diverso da quello descritto in Katy come home, che con il piglio documentaristico tipico del realismo sociale britannico affrontava la questione dei senzatetto. Trasmesso dalla BBC nel 1966 e premiato come secondo (dopo Faulty Towers) miglior programma della storia della televisione inglese, Katy come home aveva suscitato immediate reazioni di sdegno nell’opinione pubblica, dalle migliaia di telefonate all’emittente seguite alla messa in onda alle iniziative popolari che avevano costretto il Parlamento riaprire il dibattito sul tema, sebbene, sottolinea Loach, senza riuscire a produrre nel lungo termine cambiamenti concreti nelle politiche governative.
I, Daniel Blake arriva sul grande schermo pochi mesi dopo la programmazione su Channel 5 del “reality” distopico On benefits: Life on the dole, un titolo che già riassume il giudizio rivolto dai media, dalla politica e dalla società a quanti vivono “a spese della comunità”. Il termine stesso “dole” (elemosina) è entrato nel vocabolario popolare inglese come sinonimo in apparenza neutro di “sussidio”. La stigmatizzazione sociale si stratifica e si cristallizza anche attraverso il linguaggio. Così «The Mirror» si riferisce a una delle protagoniste del programma definendola una “parassita obesa” (obese benefit scrounger).
L’obesità, l’impossibilità a lavorare in seguito a un infarto, la disabilità, di qualunque natura essa sia, divengono responsabilità di chi ne è portatore, secondo la vecchia logica vittoriana secondo la quale la povertà e l’emarginazione sono una colpa, la manifestazione concreta della incapacità di vivere secondo un’etica del lavoro alla base di una società civile “sana”. Una concezione, questa, che sembrava essere stata spazzata via dalla creazione del sistema sanitario nazionale alla fine degli anni Quaranta, quando il compito primario dello stato era quello di proteggere il cittadino “dalla culla alla tomba” (from cradle to grave). Ma il neoliberismo, del quale Margaret Thatcher negli anni Ottanta è diventata icona, ha contribuito a minare alle radici il principio fondante che ha portato alla costruzione del welfare state.
La Gran Bretagna che ha deciso di uscire dall’Europa per difendere le proprie risorse dallo sfruttamento da parte degli immigrati è la stessa che punisce “secondo una logica crudele” i propri cittadini. Un Paese che si ripiega su se stesso, in cui, una volta, per essere classificati come destinatari di sussidi era sufficiente dichiarare il proprio stato di indigenza. Al contrario, nei Daniel Blake di oggi lo Stato vede potenziali approfittatori intenzionati a truffare il sistema. Eppure, secondo i dati ufficiali, tra il 2012 e il 2013 solo lo 0.8% per cento dei pagamenti evasi è stato destinato a soggetti che non avevano i requisiti per richiederlo. Lo 0,8 per cento, ma i cittadini britannici, intervistati per un sondaggio condotto dall’unione dei sindacati e riferito allo stesso periodo, ritengono che i sussidi sottratti indebitamente ammontino al 27 per cento del totale annuo.
Se esiste nel Regno Unito il problema dell’incentivazione al lavoro per quanti sono cresciuti in famiglie nelle quali il sistema dei benefit si tramanda di generazione in generazione, le statistiche dicono che del 28 per cento di adulti disoccupati, solo il 2 per cento non ha mai lavorato e di quel 2 per cento, oltre la metà è rappresentata da giovani sotto i 25 anni, un trend in crescita a partire dalla crisi del 2008.
La morale? I Daniel Blake che ci circondano stanno in fila per ore per portare a casa il cibo, sono costretti a seguire corsi di “reinserimento lavorativo” nei quali i manager di turno insegnano loro a essere competitivi in un mercato del lavoro che li respinge. I Daniel Blake hanno molte cose da fare e se protestano rischiano di ripartire da zero nelle procedure di valutazione. Si potrebbe decidere quale società si vuole costruire prima di finire al di là della linea. Quando ancora si hanno le forze, il tempo e il riscaldamento in casa.