Povertà. A che punto è la notte

16 Luglio 2017
Marco Revelli

Ogni giorno una nuova gittata di dati – una nuova slide tombale – viene emessa dalle torri del sapere ufficiale a coprire la precedente, con un effetto (voluto?) d’irrealtà del reale.

Giovedì l’Istat, nella sua nota annuale sulla Povertà, ci dice che le cose vanno male, stabilmente male, e forse peggioreranno.

Venerdì la Banca d’Italia, nel suo bollettino trimestrale, ci dice che (al netto del record del debito) le cose vanno abbastanza bene, e probabilmente miglioreranno…

Viene in mente Isaia (21,11) e la domanda che sale da Seir: «Sentinella, a che punto è la notte?», a cui dalla torre si risponde: «Vien la mattina, poi anche la notte».

Per la verità la situazione della povertà è persino più grave di quanto a prima vista potrebbe sembrare. Nei commenti a caldo ci si è infatti soffermati soprattutto sui dati generali: i 4.742.000 poveri «assoluti» e gli 8.465.000 poveri «relativi», grandezze di per sé impressionanti, ma definite nella Nota arrivata dall’Istat «stabili», essendo entrambi aumentati rispetto all’anno 2015 «solamente» di 150.000 unità.

Se però si spacchettano i due insiemi aggregati si scopre che il peggioramento è stato ben più consistente, addirittura catastrofico, per almeno tre categorie cruciali: i minori, gli operai, e i membri di «famiglie miste».

Tra le «famiglie con tre o più figli minori», ad esempio, la povertà assoluta è cresciuta in un anno di quasi dieci punti.

Schizzando al 26,8%. Nel Mezzogiorno la povertà relativa in questa categoria sfiora addirittura il 60%.

Tra gli «Operai e assimilati», poi, i poveri assoluti raggiungono il livello del 12,6% (un punto percentuale più del 2015, una crescita del 9% in un anno!) e le famiglie con breadwinner operaio in condizione di povertà relativa sfiorano il 20% (una su cinque). Sono i working poors: coloro che sono poveri pur lavorando – pur avendo un «posto di lavoro» -, ed è bene ricordare che si definisce «in povertà assoluta» chi non può permettersi il minimo indispensabile per condurre una vita dignitosa, alimentarsi, vestirsi, curarsi, mentre in «povertà relativa» è chi ha una spesa mensile pro capite inferiore alla metà di quella media del Paese. Una parte consistente del mondo del lavoro italiano è in una di queste due condizioni.

Infine le «famiglie miste», quelle in cui cioè uno dei due coniugi è un migrante: nel loro caso la povertà assoluta è quasi raddoppiata nell’Italia settentrionale (dal 13,9 al 22,9%) e quella relativa ha raggiunto nel Meridione il 58,8% (era il 40,3 nel 2015), con buona pace di chi ha fatto dell’urlo tribale «Perché a loro e non a NOI» la propria bandiera e considera privilegio lo jus soli in nome della propria miseria.

Se poi si considera il quadro nell’ultimo decennio, la storia assume i tratti del racconto gotico. Non solo il numero delle famiglie e degli individui in condizione di povertà assoluta risulta raddoppiato rispetto al 2007, ma per alcune figure la dilatazione è stata addirittura esplosiva: così per i minori, tra i quali i «poveri assoluti» sono quadruplicati (l’incidenza passa dal 3% al 12,5%).

Stessa dinamica per gli «operai e assimilati», tra i quali la diffusione della povertà assoluta, drammatica nel quinquennio 2007-2012, era rallentata fino al 2014, e poi è ritornata prepotente nel biennio successivo (3 punti percentuali in più!) dove si può leggere con chiarezza l’effetto-Renzi e l’impatto del Jobs Act sul potere d’acquisto e sulla stabilità del lavoro.

In questa luce l’inno alla gioia intonato da politica e media per le notizie da Bankitalia potrebbe sembrare una beffa (un «insulto alla miseria» registrata invece dall’Istat), se non contenesse però un tratto di realtà.

E cioè che economia e società hanno imboccato strade diverse, e per molti versi opposte. Che i miglioramenti dell’una (o l’attenuazione della crisi sul versante economico) non significano affatto un simmetrico rimbalzo per l’altra (una risalita sul versante della condizione sociale).

Anzi. I ritocchini al rialzo delle previsioni sul Pil (+1,4 nel ’17, + 1,3 nel ’18, + 1,2 nel ’19) sono in effetti perfettamente compatibili col parallelo degrado dei tassi di povertà e delle condizioni di vita delle famiglie.

Convivono nell’ambito di un paradigma, come quello vigente, nel quale la crescita redistribuisce la ricchezza dal basso verso l’alto, dal lavoro all’impresa (e soprattutto alla finanza), dai many ai few (all’1% che possiede il 20% di tutto). E in cui il Pil, appunto, s’arricchisce (in termini economici) impoverendo (in termini sociali).

Forse nel 2019 (forse!) ritorneremo ai livelli pre-crisi del «valore aggiunto» monetario, ma saremo un po’ di più vicini al Medioevo nell’equità sociale.

Finché non si spezzerà questo circolo vizioso, la sentinella dalla torre non potrà annunciare la definitiva fine della notte.

[da il manifesto del 16 luglio 2017]

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