Praga è sola

19 Agosto 2018

La fine della primavera. Pubblichiamo una serie di contributi sul drammatico Agosto 1968, l’invasione sovietica di Praga. Nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 i carri armati sovietici entrano nella capitale cecoslovacca e mettono fine alla Primavera di Praga. Lucio Magri ne scrive nel 1969, un anno dopo l’invasione sovietica. Fu una delle ragioni principali della radiazione dal Pci: non a caso erano nette le prese di distanza dalla politica sovietica. (red).

Lucio Magri

La Cecoslovacchia non suscita più vera emozione. Qualche grosso titolo nei quotidiani e le sonanti dichiarazioni dei leaders non bastano a nascondere l’accettazione dello stato di fatto. Ognuno tira l’acqua al suo mulino, cercando di trarre il maggior vantaggio o il minor danno possibile da quanto succede a Praga, senza sentirsi obbligato a pensare o ad agire.
Vale per tutte le forze politiche, compresa la sinistra. Da anni esse condividono l’ipotesi di una graduale ma effettiva evoluzione in senso «democratico» della società sovietica e degli altri socialismi europei, sotto la pressione dello sviluppo produttivo e per opera dei gruppi dirigenti. Nessuno si attende grandi rotture, in un senso o nell’altro. E’ una convinzione che risale al 1956. La denuncia dello stalinismo, fu interpretata dai comunisti come la prova migliore che il sistema socialista era in grado di riformarsi da sé, dai socialdemocratici come l’inizio di un riavvicinamento fra i due sistemi, del comune orizzonte «del socialismo e della libertà». I successi dell’URSS negli anni immediatamente seguenti al XX Congresso sostennero le immutate certezze dei primi e spinsero i secondi a preferire la prospettiva dell’accordo a quella del «roll-back ».
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti: le difficoltà crescenti del movimento antimperialista, la rottura tra Cina e Unione Sovietica, la crisi del riformismo in Occidente, le difficoltà economiche e i riflussi autoritari nel campo socialista europeo. Si cominciò a pensare che il processo di sviluppo di queste società sarebbe stato meno rapido e lineare di quanto nel 1956 si era sperato. Togliatti, che meno di ogni altro si era abbandonato all’euforia del XX Congresso, fu il primo a riconoscere la possibilità di arretramenti e lacerazioni, ma sempre nel quadro di una linea di tendenza positiva. La formula della «unità nella diversità» fu dedotta da questa convinzione. Alla quale il «nuovo corso» cecoslovacco portò, nel 1968, un innegabile conforto. È vero che esso costituiva una nuova drammatica denuncia del passato, ormai a dodici anni dal XX Congresso e dunque gettava un’ombra di dubbio sui progressi nel frattempo compiuti. Ed è vero che esso esprimeva forze contraddittorie, spinte centrifughe e dunque poteva comportare il pericolo di un cedimento all’Occidente. Ma si trattava, ancora una volta, di un rinnovamento promosso dei comunisti, diretto dal loro gruppo dirigente. Pareva quindi testimoniare, che in quel partito e in quel paese, nonostante gli errori, esisteva una ricchezza di uomini e idee tale da garantire una continua correzione del processo di rinnovamento. E infatti, nel giro di pochi mesi, la partecipazione operaia e popolare stava sostituendo all’egemonia tecnocratica e terzaforzista degli esordi del «nuovo corso» una ispirazione diversa e ben più ricca.
L’intervento militare dell’agosto 1968 fu un brusco risveglio. Non solo per la gravità dell’errore di cui il gruppo dirigente sovietico si rivelava capace, non solo per la conferma dei vincoli che l’equilibrio fra le grandi potenze impone alle forze progressive, non solo perché tradiva il peso ancora determinante degli schemi passati; ma sopra tutto perché era prova di una debolezza interna così grave dei paesi del Patto di Varsavia, da spingere i gruppi dirigenti a pagare qualsiasi prezzo pur di tagliar corto con l’esperimento cecoslovacco. Si sperò, in quei giorni, che affiorasse ai vertici dell’URSS una discussione, una divisione che permettesse di intravedere un ricambio. Questo segno non venne.
Restavano la fierezza, la misura, il carattere «socialista» della resistenza di Praga: vi si poté vedere ancora, nei primi mesi dopo l’occupazione, l’espressione di una potenzialità politica, di una maturità sociale che il partito o una, parte di esso avrebbe ancora potuto, a un certo punto, ‘raccogliere; l’esistenza insomma di una linea, per il momento perdente ma che, allentata la pressione sovietica, avrebbe potuto prendere la rivincita. Quando i comunisti italiani condannarono l’intervento sovietico senza aprire un fronte di discussione radicale con gli orientamenti dell’attuale gruppo dirigente dell’URSS e dei paesi del Patto di Varsavia, puntavano ancora, con qualche ragione, su questa carta residua.

Fine del «nuovo corso»
Il 1969 obbliga ormai ad una riconsiderazione. Ciò che colpisce negli avvenimenti cecoslovacchi dopo aprile è la definitiva liquidazione delle forze che avevano dato vita al «nuovo corso ». Se continua una resistenza nelle masse, essa appare, però, priva di una espressione o prospettiva politica. Deludendo il calcolo dei realisti, Gustav Husak si è rivelato la più irrealistica delle soluzioni: dietro di lui non c’è che il vuoto, egli non rappresenta che la copertura d’una ripresa delle forze burocratiche. I leaders del nuovo corso restano, nella migliore delle ipotesi, dei simboli; non più esponenti di una forza o di una linea. La resistenza di base, disperata quanto tenace, obbliga ai tempi lunghi, alla espressione negativa, come passività e sabotaggio, può finir col perdere il suo carattere socialista. Che si può ragionevolmente attendere dal domani, se non che sia più grave dell’oggi?
Non si tratta di passare da un acritico ottimismo ad un pessimismo catastrofico. Ma le forze che si vogliono rivoluzionarie in Occidente sono costrette a fare i conti con la realtà, a determinarsi di fronte a quel che avviene nei paesi socialisti europei, a indicare quale via d’uscita sembra loro auspicabile. I gruppi capitalisti e imperialisti hanno dal canto loro compiuto la propria scelta: non tirare la corda, tentar di inserirsi con prudenza nella crisi in atto, puntare sulla secessione romena più che sulla resistenza cecoslovacca, senza perdere di vista il punto fondamentale, cioè l’accordo con l’attuale gruppo dirigente sovietico. Non si prefiggono più di rovesciare i regimi socialisti, ma di condizionarli e spingerli a condividere una politica di stabilizzazione mondiale.
Ma le forze di sinistra? I comunisti? Nessuno meglio di noi, che per cinquant’anni abbiamo visto, giustamente, nell’URSS la garanzia della rivoluzione mondiale, può valutare la gravità del vuoto derivante da una crisi crescente del campo socialista europeo. E proprio nella misura in cui rifiutiamo lo schema semplicistico, che vede compiuta in URSS una restaurazione capitalistica, siamo tenuti a chiarire su quali ipotesi puntiamo, a quali forze ci riferiamo nel momento in cui diviene evidente che gli attuali equilibri politici e sociali non sono in grado di garantire a quei paesi una evoluzione positiva.

Due alternative
Un punto sembra assodato: l’inconsistenza dell’alternativa tecnocratica, con la sua propaggine dell’opposizione intellettuale. Sono, queste, forze troppo deboli, troppo legate ai propri privilegi, troppo subalterne alla ideologia capitalista per dirigere un blocco di forze progressive. Cercano, e talvolta trovano, l’adesione della massa sul terreno d’una spinta ai consumi, ma sono destinate a rompere con essa sull’organizzazione del lavoro e della democrazia. E a questo punto, a riannodare un compromesso con la burocrazia, a sua volta instabile, in una spirale che vede l’elemento autoritario intrecciarsi sempre più strettamente all’ideologia produttivistica, Non è una logica analoga, d’altronde, che in occidente ha portato al fallimento delle illusioni riformiste?
Una opposta alternativa si era abbozzata proprio nell’esperienza cecoslovacca: quella fondata sugli operai e l’ala progressiva, radicale degli intellettuali. Di qui era venuto quell’esplodere di una partecipazione e di una maturità delle masse, una loro naturale ostilità al privilegio, una inattesa capacità di rielaborazione ideale e di autorganizzazione. Se mai al «nuovo corso» fosse stato dato di procedere, sarebbe riaffiorata al suo interno una dialettica avanzata di classe; quella esplosione di democrazia, di bisogno di potere, di riflessione su se stessi e sui propri fini non sarebbe stata riconducibile nel quadro angusto di un socialismo tecnocratico. Essa esigeva un tipo diverso di sviluppo, in cui partecipazione e uguaglianza fossero la molla del progresso tecnico-produttivo. Questo era l’elemento comune che al di là di evidenti difformità derivate dalla totalmente diversa condizione storica, poteva unire la primavera di Praga con i principi della rivoluzione culturale in Cina: due modi di resistenza, due forme di contestazione – certo parziali, ma straordinariamente ricche – rivolte contro la stabilizzazione degli equilibri mondiali, contro i privilegi sociali e politici, fondate sulla mobilitazione e l’iniziativa di massa.
Ma non bisogna fare le cose più semplici di quanto non siano; scambiare una potenzialità con una realtà. L’alternativa di cui parliamo, nelle società socialiste europee è tutt’altro che a portata di mano. Non solo perché soffocata, ma perché le sue radici oggettive sono ancora deboli, debole l’impalcatura teorica di cui può disporre, assente un punto di riferimento internazionale. La classe operaia di questi paesi esprime, ad esempio, una collocazione ancora contraddittoria: pressata da bisogni elementari e consapevole  della possibilità di soddisfarli, essa resta’ profondamente sensibile alle suggestioni di un migliore tenore di vita; né intende, giustamente, rinunciare alle conquiste strappate ‘sul terreno della piena occupazione e della organizzazione del lavoro. Sul piano politico, diffida della fraseologia rivoluzionaria, dall’egualitarismo demagogico che ‘troppe volte sono serviti a coprire il privilegio e il sopruso. Pensare che da essa possa nascere quasi spontaneamente, e in condizioni di clandestinità effettiva, un nuovo discorso rivoluzionario, come è avvenuto nella rivoluzione culturale cinese, è un assurdo. Manca un « pensiero di Mao » non solo perché manca chi dall’alto promuova un tanto radicale processo di rottura, ma perché mancano le condizioni di una analoga proposta politica. Per fare un esempio, lo schema, caro a tanti estremisti di casa nostra, che identifica libertà di espressione e restaurazione del capitalismo (quasi che il socialismo senza censura e senza processi diventasse d’un rosso più sbiadito) basta a liquidare ogni possibilità di discorso con le forze rivoluzionarie di un paese come la Cecoslovacchia. E così gli schemi di un anticonsumismo semplificato o di egualitarismo ascetico. Il vero problema di queste società, ormai a un certo grado di sviluppo, è lo stesso su cui dobbiamo misurarci noi in Occidente: un discorso radicale sull’uguaglianza, la democrazia diretta, il superamento dell’individualismo e del lavoro alienato, la critica alla scienza e alla tecnica borghesi, ma in forme adeguate a società ormai articolate, complesse, ricche di individualità, in grado di impiegare nel processo di emancipazione dell’uomo tutto il patrimonio di conoscenze e di capacità accumulato in secoli di sviluppo. Il problema è- lo stesso: difficile per noi, ancora più difficile per i paesi dell’Est europeo.
Ma una volta che ci sia chiaro che l’attesa d’uno spontaneo, e pur lento, maturare di una alternativa positiva all’interno del campo socialista è destinata a naufragare come sono naufragate le speranza di una evoluzione affidata ai gruppi dirigenti usciti dal XX Congresso, o al crescere dell’opposizione tecnocratica; una volta persuasi che, affidate al loro corso naturale, le cose non possono che peggiorare, il proletariato europeo non può più esimersi dalla responsabilità di aiutare esplicitamente la formazione di una alternativa di sinistra, rivoluzionaria, all’interno del campo socialista, prima che quanto vi resta di opposizione degeneri in una linea di destra. Già è una lotta contro il tempo: le accoglienze fatte a Nixon in Romania dovrebbero suonare ormai come un campanello d’allarme. È una responsabilità d’altra parte che tocca al proletariato occidentale, perché è il solo, forse, in condizioni di elaborare e di realizzare un modello di socialismo in cui si compongano le antinomie contro cui obbligatoriamente finiscono con lo scontrarsi le forze rivoluzionarie degli altri ‘settori del mondo. La nostra solidarietà contro l’intervento militare appare, quindi, non più che una premessa, e non a caso suona sempre più formale, ripetitiva, meno convinta. Tanto più che quando la solidarietà non è più rivolta al partito comunista di un paese invaso ma a masse che protestano in piazza contro le forze di occupazione e contro il loro stesso governo, essa cambia di natura, deve poggiare su di un terreno più solido, oppure, nella pratica, si stempera. Da solidarietà diventa «preoccupazione», da «preoccupazione» può diventare «neutralità». Si tratta di misurare l’internazionalismo su un terreno molto più avanzato e difficile.

Per la resistenza
Il primo punto è l’assunzione di una presa di posizione netta di fronte alle scelte politiche dei gruppi dirigenti dell’URSS e degli altri paesi socialisti europei. Non è più possibile puntare su una loro autocorrezione; si è costretti a puntare sulla loro sconfitta e la loro sostituzione, per iniziativa e da parte di un nuovo blocco di forze sociali diretto dalla classe operaia, un rilancio socialista che investa le strutture politiche e sia capace di esprimere realmente le potenzialità immense uscite dalla Rivoluzione d’ottobre. I cauti condizionamenti dall’esterno, le critiche generiche che non individuano esplicitamente obiettivi, responsabilità, gruppi dirigenti, non rappresentano ormai che segmenti di un «realismo» sempre più somigliante all’omertà, che avalla gli stati di fatto e scoraggia sul nascere ogni forza di opposizione. Finché la resistenza cecoslovacca si troverà di fronte – nel campo internazionale – all’alternativa fra le simpatie degli anticomunisti e le prudenziali realistiche coperture all’attuale gruppo dirigente, non le resterà che l’isolamento e il ripiegamento su se stessa.
Ma anche questo è un punto preliminare. Il proletariato occidentale ha un solo modo per diventare un punto di riferimento mondiale, un momento di internazionalismo attivo ed efficace: quello di portare avanti la sua rivoluzione; essere in grado di proporre un modello di socialismo diverso, perché lo sta realizzando. Il discorso sulla Cecoslovacchia ci riporta così all’Italia. Con una nuova consapevolezza, e cioè che se la crisi oggi aperta in Occidente si dovesse ancora una volta chiudere con una sconfitta o un nulla di fatto, dovremmo scontare un arretramento grave su tutto il fronte rivoluzionario internazionale. Vi è una perfetta coerenza fra chi perdona la politica di Brezhnev e chi sollecita da noi una linea di compromesso. Se in Occidente i comunisti si inseriscono non c’è da attendersi che un congelamento conservatore nelle società socialiste. Sarebbe l’internazionalizzazione della rinuncia.

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