Presa d’atto, Mario Sulis e le sue congetture in una mostra antologica
1 Luglio 2021[Gianni Loy]
È frequente sentir dire, per comune vulgata, che i rifiuti gettati via, lo scarto della nostra irrequieta società dei consumi, se sapientemente utilizzati, possono tornare a nuova vita.
Una sorta di contro-didattica che ambisce ad invertire la rotta che conduce all’estinzione, per soffocamento, dell’attuale livello di civiltà. Una strada suggerita con lo strumento della persuasione – comporta una non facile conversione delle coscienze – che dissimula, in realtà, la cattiva coscienza di chi razzola male, di chi, manovrando le leve dei poteri, tollera, quando non incoraggia, lo scempio dell’usa e getta.
Mario Sulis potrebbe essere ascritto alla lista degli adepti della nuova, ma mica tanto, religione. Un artista che i rifiuti li va a cercare, per terra e per mare. Un artista che guarda con occhio curioso e sensibile ad oggetti altrimenti destinati a venir presi a calci, o spazzati via, o nascosti; oggetti che col passare del tempo perdono le proprie sembianze.
Quei rifiuti, quegli scarti, pietosamente individuati, raccolti, modellati, non vengono però restituiti a nuova vita, non vengono esibiti. Non si tratta, in definitiva, di una loro rivincita. L’artista non fa esercizio di come si possa far rivivere un residuo. Egli si limita a farsi carico, pietosamente, della loro tumulazione. Solo che, nell’occasione della loro seconda morte, quella definitiva, vengono accompagnati da confortevoli esequie.
Quei rifiuti, quegli scarti, costituiscono, “semplicemente”, la materia che l’artista utilizza per il racconto. Un racconto, essenzialmente autobiografico, nel quale emerge la consapevolezza di come la storia individuale sia intimamente e inevitabilmente connessa con quella collettiva, a partire dalla coscienza del disastro dei luoghi e dei delitti – una traccia di rossetto su frammenti di cristallo può ben rappresentare il femminicidio – di cui l’uomo è capace. È solo curiosità, in fondo, seppur piacevole, scoprire la natura dei materiali utilizzati.
A voler individuare un filo conduttore, un’idea dominante, tra le tante suggestioni offerte all’ospite, direi – riprendendo la definizione dal titolo di una delle opere esposte – che si tratta di una “presa d’atto”.
L’artista prende atto delle quattro stagioni che la vita ci riserva, così come propone i paesaggi di una natura vilipesa e a volte contaminata, dalle marine nordiche al deserto di Atacama, ai Cernobyl di sempre.
Rassegnazione. Può darsi. Sicuramente anche la nostalgia per un treno perduto, la ricerca di una ricomposizione di traumi e conflitti, personali e collettivi, la ricerca di un senso per quanto, dentro e fuori, accade. Certamente anche speranza, se è vero che, come dal letame nascono i fiori, dai cocci dei piattelli di tiro al volo possono nascere campi di tulipani, che la memoria può essere racchiusa nel guscio di un residuato bellico abbandonato in un fondale.
Quando possibile, l’artista si rappacifica con gli eventi del passato: i trucioli colorati del legno che fu dei casotti del Poetto, memoria o nostalgia, trovano pace, ricomposti in ordine, a segnalare che non ci resta che star contenti al quia; osso bianco di fenicottero, semplicemente riposa, disteso su di una natura divenuta indistinta. Per il paese, l’Italia, imprigionata dal covid dietro una grata, si dovrà attendere.
Accanto agli scenari, si afferma il vissuto personale. La fanciullezza e la figura materna irrompono prepotentemente, con l’evidenza della fotografia. Rappresentazioni cariche di simbolismo evocano il conflitto, sullo sfondo del muro di Berlino, ed una verosimile conciliazione: il sorriso delicato della madre andata via con al collo una collana composta da vecchi chiodi. Di chiodi, sì, ma pur sempre collana.
La mostra antologica di Mario Sulis, ospitata negli spazi del The Net Value, in viale La Playa 15 a Cagliari, rimarrà aperta sino al 10 settembre.