Primarie Pd. In Sardegna vince il centralismo
1 Maggio 2017Massimo Dadea
Una delle caratteristiche del sistema politico sardo è l’immobilismo. Le primarie per l’elezione del segretario regionale del PD sono un’ulteriore testimonianza dell’incapacità della politica, delle istituzioni, dei partiti, a rinnovarsi. Della scarsa attitudine a selezionare e a promuovere nuovi leader, nuovi gruppi dirigenti. Una “coazione a ripetere” che ripropone, comportamenti, modalità, già visti nel passato più o meno recente. Sempre le stesse facce, desolanti nella loro preoccupante fissità: gli stessi gruppi di potere che da decenni tirano le fila della politica sarda. Due candidati, fieramente contrapposti, che nazionalmente fanno riferimento, casualmente, alla stesso leader: Matteo Renzi.
Due persone che hanno accettato di prestare le loro facce presentabili alle due correnti che si contendono, da anni, la gestione del partito. Un deputato e un senatore espressioni di un sistema che, in Sardegna, da anni occupa tutti i gangli della vita politica, istituzionale ed economica. Le elezioni primarie si sono rivelate una mera conta, utile per stabilire le gerarchie all’interno del partito. I problemi dell’isola – dalla drammatica mancanza di lavoro, allo spopolamento della “Sardegna di dentro”, ai temi dell’ambiente e del paesaggio, dell’energia e dei trasporti, dell’ormai logoro rapporto tra Stato e Regione, del nuovo assetto organizzativo della sanità, al nuovo “sgoverno” del territorio – sono rimasti, sfocati, sullo sfondo. In buona sostanza si sono affrontati gli stessi protagonisti che, il 14 ottobre 2007, si contesero la prima segreteria regionale dell’appena nato PD.
Renato Soru, allora Presidente della Regione, venne sconfitto da un grumo di interessi e di privilegi che erano stati messi in pericolo dal processo di cambiamento avviato dal governo regionale di sinistra. Renato Soru, la sua giunta, erano considerati un pericolo e dovevano essere spazzati via, anche a costo di riconsegnare la Regione alla destra, a costo di compromettere la nascita del PD. La sfida era tra chi voleva perpetuare nel PD i vecchi partiti e le vecchie correnti e chi voleva coglierne la nascita per rinnovare la politica, costruire un partito nuovo, selezionare un nuovo gruppo dirigente. La sfida, ieri come oggi, era tra il vecchio e il nuovo della politica. Niente è cambiato da allora, tutto appare cristallizzato intorno a quegli stessi personaggi.
Soru, nel frattempo, ha perso quella febbrile volontà di cambiamento che lo aveva caratterizzato, ha smesso di graffiare, i suoi aculei si sono spuntati. Cabras è rimasto uguale a se stesso. Appollaiato sullo scranno della sua Fondazione continua a condizionare – grazie alla discreta quantità di risorse pubbliche di cui può disporre – non solo la vita interna del suo partito, ma la politica, la cultura, l’economia, gli affari. Distribuisce con filantropica generosità posti di sottogoverno ai suoi fedelissimi, spaziando dalla Sardaleasing all’Autorità portuale, senza trascurare di tessere la tela del ragno che dovrà portare al nuovo Presidente della Regione.
Il PD sardo appare irrimediabilmente marchiato da quel peccato originale che si porta appresso dalla sua nascita e che gli impedisce di diventare un moderno partito riformista della sinistra. La Sardegna ha necessità di uno scossone, forte, violento. C’è bisogno di aria fresca, pura, limpida, che spazzi via quell’aria mefitica che appesta la vita politica sarda. C’è bisogno di rinnovare, cambiare, di fare pulizia. Tutto questo non possono farlo i vecchi partiti, i vecchi gruppi dirigenti sclerotizzati, le vecchie ed inadeguate istituzioni autonomistiche.