Quale Statuto

1 Ottobre 2010

ligas

Marco Ligas

Si discute nuovamente dello Statuto sardo, il Consiglio Regionale proprio in questi giorni ha esaminato le proposte presentate dai diversi gruppi consiliari. Tutti hanno sottolineato l’esigenza di adeguare la Carta ritenuta ormai inadeguata ad affrontare i nuovi problemi della Sardegna.
È curioso come periodicamente venga affrontato questo dibattito che si conclude sempre con un nulla di fatto. Non escludo che questo esito dipenda dal carattere elitario con cui viene condotto. La gente, come si usa dire, i lavoratori, i cittadini, le stesse istituzioni territoriali (provincie e comuni) quando non vengono escluse dal dibattito ne stanno comunque ai margini. I rappresentanti dei gruppi consiliari o delle diverse coalizioni politiche fanno le loro proposte, predispongono ordini del giorno voto o disegni di legge, ma quante di queste iniziative sono conseguenti a un coinvolgimento reale dei cittadini? Non lo sono quasi mai, il confronto con gli elettori è un percorso che i consiglieri regionali non conoscono. Così queste iniziative, per quanto possano essere importanti ed opportune, rimangono delle incompiute e sono perciò inconcludenti. Credo che ancora una volta la decisione di dar vita a partiti leggeri abbia reso più difficile il coinvolgimento dei cittadini nelle scelte dei gruppi dirigenti dei vari partiti.
Nella discussione attuale si coglie, rispetto al passato, l’uso di termini più radicali: si parla infatti, e devo dire con disinvoltura sottovalutando i cambiamenti intervenuti nei rapporti con lo Stato e con l’Unione Europea, di sovranità, di indipendenza, di autodeterminazione, di secessione, di confederazione. Il massimalismo del linguaggio dipende da un vuoto politico preoccupante che tende ad occultare le gravi responsabilità di chi ha provocato e tutt’ora provoca l’impoverimento della Sardegna. Come è possibile che le formazioni politiche che governano sia nell’isola che nel paese parlino di autonomia tradita, di scelte coloniali a danno della Sardegna, di mancati risarcimenti e di altro ancora? Che cosa fanno queste formazioni nella Giunta regionale o nel Governo, come difendono gli interessi della Sardegna? Non difendono alcunché se non gli interessi dei clan  a cui appartengono; favoriscono la dipendenza del popolo sardo e, applicando un modello caro al trasformismo, attribuiscono le ragioni del degrado e della crisi o all’inadeguatezza dello Statuto o al centralismo dello Stato. All’interno di questa impostazione sembra del tutto secondario e ininfluente quel che fanno le classi dirigenti nelle istituzioni sarde.
Ho sottolineato in altre occasioni un’opinione espressa da Renzo Laconi in un articolo apparso nella rivista Il ponte qualche anno dopo la nascita dell’Autonomia. È passato tanto tempo ma alcune valutazioni mi sembrano ancora valide, soprattutto per quel che concerne il ruolo che i gruppi dirigenti devono svolgere. Diceva Laconi che ‘l’autonomia non ha un valore per sé stessa, ma lo assume se viene correlata ad una legislazione speciale che consenta la nascita di strutture capaci di dar vita ad iniziative locali di trasformazione e di progresso economico e sociale. Senza queste condizioni – continuava Laconi  – gli istituti autonomistici si trasformano in un apparato oneroso e inutile e non è escluso che larghi strati della popolazione ricadano nell’errore di un falso unitarismo’.
Pur non nascondendo un giudizio critico sullo statuto del 1948, Laconi sottolineava come esso offrisse sia alla giunta regionale che al consiglio gli strumenti per contrastare gli interessi consolidati del blocco conservatore, allora rappresentato dagli agrari, dagli industriali e dai commercianti del formaggio. Nel riconoscere questa opportunità allo Statuto speciale, non sembra arbitrario sostenere che le preoccupazioni di Laconi più che sul terreno legislativo (della qualità della legge) si manifestassero su quello proprio della politica, ovvero della volontà dei partiti di rispettare le indicazioni presenti nello Statuto, scaturite dalle lotte popolari sviluppatesi nell’immediato dopo guerra. Non mi sembra superfluo perciò ricordare che anche lo Statuto più avanzato, se non è sorretto da una classe dirigente profondamente legata alle esigenze del popolo sardo, rischia di rimanere lettera morta. Può far parte di questa classe dirigente chi consegna, in termini di resa, la bandiera dei quattro mori a Berlusconi e oggi si presenta come paladino dell’indipendenza dell’isola?
Anche l’eccesso localistico presente in alcune mozioni, con l’ultima trovata della Confederazione delle Regioni, rischia di trasformare il bisogno di autonomia e di indipendenza in un boomerang, dove possono prendere corpo tentazioni secessionistiche. Chissà se la Lega ringrazierà. Perciò è opportuno ribadire, correndo anche il rischio di essere ridondanti, che senza partecipazione e condivisione popolare su questi temi, non è possibile l’apertura di una nuova stagione di costruzione dell’indipendenza. Condivido anche questo termine se intendiamo il concetto di indipendenza come un processo, come un impegno teso alla conquista di maggiori spazi di autodeterminazione per contrastare i molteplici soprusi che le popolazioni dell’isola subiscono (anche da forze politiche e sociali interne). Ma al concetto di indipendenza non dobbiamo associare quello di separazione. L’identificazione indipendenza/separazione non solo non è opportuna (pensiamo alle controversie che nascerebbero sul concetto di sovranità), ma non è neppure condivisibile idealmente perché foriera di discriminazioni, di disuguaglianze, di esclusioni, ecc. Alla separazione è sempre preferibile l’unità; per quanto mi riguarda difendo sino in fondo la sardità ma al tempo stesso ribadisco che questa non può ridimensionare o contrapporsi al valore della solidarietà di classe.
Ci si chiede comunque se l’Autonomia nata nel ’48 debba essere modificata. Noi non dobbiamo avere uno Stato che ci concede (mi sia concesso l’ossimoro) delle autonomie; con lo Stato dobbiamo discutere e pretendere una parità di diritti in un rapporto che non sia di dipendenza; naturalmente anche l’Istituzione Regionale deve dare. Per queste ragioni penso che abbia senso parlare di interdipendenze, da intendere come relazioni circolari dove i diritti e i doveri vengono definiti attraverso confronti e accordi. Si possono fare molteplici esempi di ricontrattazione dello Statuto, partendo dai problemi che viviamo giorno per giorno. Mi limito a citarne solo alcuni senza approfondirli (consapevole che l’elenco è molto più lungo).
1) Il lavoro è una priorità assoluta che deve essere affrontata anche con iniziative di emergenza sia per favorire il blocco dei licenziamenti o della cassa integrazione che migliaia di lavoratori stanno subendo in tutta l’isola, sia per creare nuove possibilità occupative a favore delle giovani generazioni.
2) Il popolo sardo ha il diritto di decidere se le centrali nucleari devono essere situate nell’isola? La risposta mi sembra ovvia: ne ha pieno diritto.
3) Le servitù militari presenti nell’isola occupano i due terzi della superficie complessiva che lo Stato destina ad esse in tutto il territorio nazionale. È una situazione paradossale, tanto più grave perché sono state accertate le conseguenze nefaste causate dalle armi che di volta in volta vengono collaudate. Lo Stato deve interrompere questi esperimenti e liberare l’isola dalle basi e dai pericoli che ne conseguono.
4) Parliamo spesso di insularità; partendo da questa condizione geografica bisogna rivedere la politica dei trasporti: i cittadini sardi hanno diritto, negli spostamenti all’interno del territorio nazionale, di pagare gli stessi costi degli altri cittadini italiani.
Ecco, questi sono alcuni esempi (fra tanti) che possono essere usati come punti di riferimento per un impegno politico serio teso a far uscire la Sardegna dalle condizioni di subalternità e arretratezza in cui si trova attualmente. E la riforma dello Statuto non potrà che scaturire da questo lavoro collettivo.

4 Commenti a “Quale Statuto”

  1. Francesca Cau scrive:

    Quando nel 1940 il comando militare inglese chiese a De Gaulle che cosa voleva fare per liberare la Francia occupata dai nazisti e governata dai petainisti, il generale rispose: “Farò di tutto, tranne il ridicolo”. Per noi sardi, la frase rischia di avere un senso se rapportata al dibattito che si sta producendo all’interno del Consiglio Regionale su “riforma dello statuto”, “sovranità” e “indipendenza”. Un dibattito piuttosto vuoto, perchè centrato sulla altisonante rivendicazione di un’identità granitica e millenaria, nonché sulla premessa che i mali dell’Isola siano addebitabili allo Stato italiano. Quindi il problema è “fuori”, e il riscatto dipenderebbe da noi e dalle nostre forze. Ma è proprio così?
    Nelle mozioni presentate non c’è traccia di una vera lettura critica della storia dell’Autonomia, di come questa sia stata utilizzata spesse volte per puntellare le reti di influenza dei partiti di governo. Non si insinua nemmeno il dubbio che, se quella Autonomia che era stata pensata dai suoi fondatori come strumento di maturazione dei sardi abbia fallito, ciò dipenderebbe, non solo, ma anche da noi. Invece di leggere la nostra storia per decenni si preferisce farlo per millenni, in modo tale da non rendere conto ai cittadini di una causalità politica che ha un peso indubitabile nella nostra situazione attuale. E così, sospesi tra un eterno presente e un incerto millenarismo storico, molti annunciano che vogliono essere “sovrani” senza aver dimostrato di saper essere veramente “autonomi”, superuomini senza prima aver dato prova di saper essere uomini adulti e maturi.

  2. Fausto Todde scrive:

    Anni or sono, in tempo di grande sicittà, ho sentito una persona che teneva banco spiegando ad un gruppo di ascoltatori che con le tecnologie a disposizione, non ci voleva niente a sconfiggere la sicittà: bastava collegare con un idoneo acquedotto la sardegna al continente. Ho solo fatto notare che non basta avere delle idee per credere di poter risolvere i problemi: le idee sono geniali solo quando sono realistiche. Leggendo quanto scrive Ligas mi sono chiesto dove sono tutta questa moltitudine di sardi che ambiscono a discutere di questi temi. In più, quanti sono quelli che leggendo questo articolo sono in grado di capirne sinteticamente il contenuto? Ecco, il punto è questo: al 99% della gente non interessa un accidente non solo di discutere, ma neppure di leggere un articolo come quello di Ligas. Questo mi dice di quanto siano distanti le idee e “sbagliate le strategie” delle minoranze elitarie che faticano a rendersi conto della realtà contestuale. Per questo motivo continuo a condannare l’avversione di Ligas contro Soru nel periodo elettorale: mi è sembrato un atteggiamento miope del “tanto peggio, tanto meglio”. Ci sarebbe da chiedersi perchè il P.S.d’Az. si sia scoperto “indipendentista”: SOLO PER SALVARE LA FACCIA AUMENTANDO LE POLTRONE!!!

  3. Marco Ligas scrive:

    Caro Todde, credo che abbia letto in modo affrettato il mio articolo. Non ho detto che c’è una moltitudine di sardi desiderosa di discutere il nuovo Statuto; ho affermato che il dibattito dell’ultima seduta del Consiglio Regionale avrebbe dovuto avere un riscontro maggiore fra gli elettori. Perché si discute di una legge così importante senza coinvolgere il popolo sardo? Non pensi che questo sia un principio che vada sempre rispettato? Non credo neppure che i lettori dell’articolo siano così impreparati da ‘non capirne sinteticamente il contenuto’. Tutt’al più alcuni non lo avranno condiviso, ma penso che tutti lo abbiano capito. Non essere perciò così determinato quando esprimi opinioni, senza peraltro argomentarle adeguatamente. Anche l’avversione che mi attribuisci nei confronti di Soru mi sembra immotivata e comunque fuori tema. Piuttosto speriamo che Soru, nella vicenda ‘Statuto’, non segua troppo Maninchedda’.
    Sul fenomeno Soru, a te caro, faccio parlare Alfredo Reichlin (Il midollo del leone, ed. Laterza, pp 89/90): ‘Io mi domando quanto di giusto, ma anche quanto di sbagliato c’era in un lungo corso politico che, volendo superare il sistema della proporzionale in nome del potere degli elettori di scegliere più direttamente i governi, ha finito in realtà per alimentare la personalizzazione e concentrazione del potere (un uomo solo al comando) e per rendere irrilevante il ruolo del Parlamento’. Il limite di quella esperienza ricade nei casi citati da Reichlin?

  4. Fausto Todde scrive:

    caro Ligas, avevo inviato un mio comento, sopratutto per rimarcare un concetto per me fondamentale: quando si parla di azione politica non si può non prescindere dalla realtà. Io vivo in V. d’aosta ma seguo, avolte con molta stizza, la situazione politica sarda. Rammento sopratutto le estenuanti tratattive per arrivare a formare una maggioranza, non tanto per decidere un’azione comune, quanto piuttosto per avere più poltrone; insomma un autentico mercato delle vacche. Se vogliamo fare una riflessione sull’operato di Soru, non possiamo dimenticare che il quadro politico sardo era (e sta tornando ad essere) di uno squallore unico. Naturalmente, caro Ligas, se uno è pregiudizialmente contro, troverà sempre argomenti per criticare. Il ragionamento di Reichlin è concettualmente giusto e naturalmente è riferito ad un sistema elettorale ormai adottato da quasi tutte le regioni (eccetto forse la sola V d’aosta). Soru che decide su tutto di testa sua? Non esageriamo! Di certo nel marasma politico sardo spesso, come lui stesso ha chiarito, le estenuanti quanto inconcludenti discussioni lo hanno indotto a farsi carico di una decisione. Ad ogni modo un politico lo si giudica dal suo operato e finita la parentesi soru, che personalmente definisco “grandiosa”, la sardegna è tornata alla vecchia politica fatta di baronati politici, affaristi, piduisti, speculatori e sopratutto “cementificatori”. “LA SARDEGNA TORNA A SORRIDERE”. Sono i sardi che piangono! Cordialmente f.t.

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