Statuto precario

1 Giugno 2010

pruna

Lilli Pruna

Ho ripreso da uno scaffale un documento che nel 1985, e per diversi anni successivi, aveva riscosso molto interesse e suscitato accesi dibattiti: il “Piano decennale per l’occupazione” voluto dal ministro del lavoro Gianni De Michelis durante il primo governo guidato da Bettino Craxi, e coordinato da Renato Brunetta (La politica occupazionale per il prossimo decennio, Roma, settembre 1985). La rilettura, a distanza di 25 anni, è stata interessante e per alcuni versi illuminante, perché le linee indicate coincidono perfettamente con la politica del lavoro (e il lessico) dei governi Berlusconi, quello attuale e i due precedenti. Nel Piano di De Michelis si parlava di “Azienda Italia” da mantenere in serie “A” (i riferimenti calcistici, utilizzati nel linguaggio politico a partire dalla famosa “discesa in campo” del 1994, sono diventati la metafora dominante) e si puntava fin da allora sulle “politiche attive per la flessibilità”. La flessibilizzazione del mercato del lavoro prende avvio proprio in quegli anni, con l’introduzione nel 1984 dei contratti di formazione e lavoro, e secondo il Piano di De Michelis negli anni a venire avrebbe dovuto riguardare le politiche salariali, la “diversificazione dei modelli di rapporti di lavoro” (si trattava di “invertire la tendenza consolidata a definire e inquadrare l’offerta di lavoro secondo il modello unico di rapporto di lavoro a tempo pieno e con assunzione a tempo indeterminato, tenendo conto, invece, delle reali tipologie di lavoro, emergenti non solo da esigenze della domanda ma anche dell’offerta”); la “deregolazione dei processi in entrata” e la “riregolazione dei processi in uscita”. A proposito dell’ampio ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria, a seguito degli interventi di riconversione e ristrutturazione industriale di quegli anni, nel Piano si legge: “La combinazione tra rigidità ed assistenzialismo, in presenza di trasformazioni produttive rapide come le attuali, è tra le più deleterie. (…) A questo riguardo, occorrerà affrontare finalmente il tema dei licenziamenti collettivi, finora escluso per (comprensibili) difficoltà di trovare consenso in materia”. Infine, il Piano prevedeva la revisione dello statuto dei lavoratori (scritto proprio così: senza neppure l’iniziale maiuscola). Dopo appena 15 anni dall’approvazione della Legge n. 300 del 1970 – conosciuta appunto con il nome di “Statuto dei lavoratori” – nel documento del ministro De Michelis si legge: “Il mutato contesto economico richiede anche una “riforma” della legge 300/70 che, senza negare l’alto valore dei suoi contenuti garantistici, ne aggiorni in alcuni punti la disciplina, rivedendo la controproducente rigidità di alcune tutele riconosciute ai singoli lavoratori e valorizzando invece il potenziale di flessibilità offerto dal ruolo di mediazione – tra esigenze della impresa e interesse dei lavoratori collettivamente considerati – svolto dal soggetto sindacale”. Lo Statuto dei lavoratori è arrivato quasi indenne fino ad oggi, ma tutto il resto è cambiato. Un filo ininterrotto si dipana da quel Piano fino alle misure più recenti di politica del lavoro adottate dal governo Berlusconi. Il Piano di De Michelis si è rivelato non decennale ma ormai trentennale: il processo di “flessibilizzazione” del mercato del lavoro è andato avanti come un treno, da De Michelis ai giorni nostri, con il contributo di molti, senza una resistenza convinta e determinata da parte di nessuna forza politica, e senza soluzione di continuità nell’alternanza di governi di centrodestra e centrosinistra (con l’unica preziosa eccezione, purtroppo breve, del ministro Cesare Damiano). Nel 1991 viene approvata la riforma della Cassa integrazione guadagni nella direzione indicata dal Piano, con nette limitazioni di durata e di applicazione, e nuove norme per la gestione delle eccedenze di personale: licenziamenti collettivi con indennità di mobilità (il ministro del lavoro era Franco Marini e quello delle finanze, che dettava i tagli alla spesa pubblica, il socialista Rino Formica). Dopo circa dieci anni dal Piano decennale, il ministro del lavoro Tiziano Treu (che aveva contribuito, insieme a molti altri studiosi, alla predisposizione dello stesso Piano De Michelis) presenta il noto “pacchetto” – la Legge n. 196 del 1997 – con il quale il lavoro interinale e altre forme contrattuali “atipiche” entrano a far parte dell’ordinamento italiano del lavoro (o ne vengono estese le possibilità di applicazione). Qualche anno dopo, nel 1999, anche Massimo D’Alema – allora presidente del Consiglio – dà il suo contributo dalla Fiera del Levante di Bari: “E’ finita l’epoca del posto fisso, oggi l’occupazione si crea anche con i lavori a termine”. Nel 2003, il ministro del lavoro Maroni, con il sottosegretario Maurizio Sacconi (che proviene dalla corrente di De Michelis e negli anni in cui si elaborava il Piano decennale era vicepresidente del gruppo socialista alla Camera), avvia l’ultima decisiva riforma del mercato del lavoro, che imprime una accelerazione ulteriore al processo di “flessibilizzazione”: la Legge n. 30, e il Decreto Lgs. n. 276, spalancano alla precarizzazione del lavoro le ultime porte rimaste socchiuse. Non si può certo dire che lo Statuto dei lavoratori – di cui in questi giorni si celebrano i quarant’anni – abbia impedito la diffusione della precarietà; eppure, l’attuale ministro del lavoro Sacconi avanza insistenti proposte di revisione dello Statuto, per sostituire la libertà e la dignità dei lavoratori con quella dei “lavori”, con il consenso o la distrazione di una buona parte del centrosinistra. Per riassumere: in Italia, la regolazione del mercato del lavoro è da trent’anni nelle mani di un ristretto gruppo di persone. Sempre le stesse, provengono dalla stessa area politica di sinistra (!) con transiti compatti nella destra berlusconiana, hanno smontato in modo sistematico il modello tradizionale di lavoro dando piena legittimazione a forme di occupazione sempre più instabili e sempre meno tutelate. E nessuno si è opposto. Auguri allo Statuto dei lavoratori.

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