Prima la democrazia
16 Novembre 2011Marco Ligas
È difficile far peggio di Berlusconi, perciò è comprensibile la soddisfazione diffusa per la sua uscita di scena; naturalmente ci auguriamo tutti che sia definitiva. Siamo però consapevoli che non sarà conseguente un’inversione di tendenza della politica italiana. Monti non avvierà il cambiamento auspicato da tutti coloro che nel corso di questi decenni hanno subito gli effetti disastrosi della crisi. Ha già detto che non chiederà lacrime e sangue ma sacrifici si. E quando si fanno queste affermazioni non è arbitrario ritenere che le misure che verranno adottate per uscire dalla crisi saranno ancora una volta a carico delle fasce più deboli della popolazione. È significativo che mentre si danno per certi gli interventi sulle pensioni, sulla reintroduzione dell’Ici, sulle privatizzazioni e le liberalizzazioni, sulla riforma dei contratti di lavoro, l’applicazione di un’imposta sui patrimoni rimane solo un’ipotesi. Dove sta allora l’equità nella richiesta dei sacrifici?
In realtà la lettera della Bce rimane il punto di riferimento essenziale e non modificabile del futuro governo sempre che Monti riesca a dar vita al nuovo esecutivo.
La messa in disparte di Berlusconi non può indurci a sottovalutare che Mario Monti è un rappresentante coerente del neoliberalismo. Sappiamo bene che, sottolineando questo aspetto, ci esponiamo alla critica di ideologismo soprattutto da parte di chi applica l’ideologia (quella padronale) come pensiero unico. Ma non sono neutrali le considerazioni di Monti secondo cui la cultura italiana sarebbe ancora fortemente influenzata dal marxismo mentre quella liberale per troppo tempo sarebbe rimasta ai margini. Per fortuna, ha aggiunto il presidente incaricato in una recente intervista, sia la Gelmini che Marchionne stanno riuscendo, in virtù della loro determinazione, ad imprimere una svolta! Non c’è proprio male in queste affermazioni; non sappiamo come siano andate le conversazioni tra Monti e Napolitano, ma gli orientamenti espressi dal presidente incaricato ci sembrano lontani da un programma di equità. Ci troviamo inoltre davanti ad un passaggio diverso rispetto alle indicazioni iniziali: non più un incarico a tempo determinato ma un accordo sino alla conclusione naturale della legislatura.
Se questo disegno, con i tratti distintivi che stanno emergendo (governo confindustriale, tecnocratico, legato alle scelte dei poteri economici internazionali), dovesse realizzarsi dobbiamo riconoscere come le componenti della borghesia più attente alla tutela dei propri interessi sappiano davvero usare le lotte dei lavoratori e delle masse popolari per conservare e consolidare i propri privilegi. La caduta di Berlusconi è certamente dovuta all’arroganza della sua politica, alla sua inaffidabilità e a quella del gruppo di lavoro che lo ha affiancato in questi anni; ma è innegabile che strati sociali via via più consistenti del popolo italiano hanno contribuito in maniera determinante alla sua caduta. Ancora una volta però altri ne raccolgono gli effetti e non per tutelare gli interessi di chi ha subito i maggiori contraccolpi della crisi.
Verosimilmente non appare infondata l’ipotesi secondo cui uno degli aspetti più pericolosi della formazione del governo tecnico sia il rinvio delle elezioni. In questo modo si sta offrendo alla destra l’opportunità di riorganizzarsi, di recuperare il consenso nelle aree sociali dove ha perso credibilità e rendere più incisiva la sua politica populistica. Ma non è solo la democrazia in pericolo, è a rischio anche il reddito delle famiglie, già fortemente tartassate. Tutti gli indicatori economici dicono che le cose non vanno bene e soprattutto che non si rimetteranno a posto in tempi rapidi.
Purtroppo c’è un tema che sia la destra più illuminata che quella più conservatrice non intendono assumere: quello per cui occorre recuperare risorse dai ricchi per investire nella riconversione del modello produttivo. È un tema che la stessa sinistra dovrebbe sviluppare con più determinazione, articolandolo in base alle specificità dei diversi territori. È un percorso difficile ma obbligato, eppure è il più idoneo per rendere credibili i discorsi sulla crescita e la nuova occupazione.