Regno Unito: meglio fuori?
16 Giugno 2016Gianfranco Sabattini
Il 23 giugno i cittadini del Regno Unito dovranno esprimersi attraverso un referendum se continuare a fare parte dell’UE, oppure uscire. L’eventualità che il voto sia favorevole all’exit sembra preoccupare alcuni potenti della terra, per i danni che potrebbero derivare ai cittadini britannici, mentre scarsa o nulla è la valutazione del possibile exit dal punto di vista dell’interesse dell’Unione Europea.
A parere di Marco D’Eramo (”Una Brexit per il bene dell’Europa”, Micromega, 4/2016) e di alcuni economisti, l’exit è un bene, e l’”augurio di una separazione consensuale è tanto più sentito quanto più lo stato attuale dell’Unione è catatonico, in rotta accelerata verso l’implosione”; ciò perché, senza un’unanime determinazione di tutti Paesi membri dell’UE, il progetto dell’unione politica dell’Europa è destinato a sicuro fallimento. A parere di D’Eramo, è inevitabile che ciò accada, se non fra alcuni mesi, di certo fra alcuni anni, perché nessuno dei problemi considerati come le cause prime della crisi dell’Unione da tempo manca di essere in cima alle preoccupazioni delle classi politiche dei Pesi membri, in funzione di una possibile soluzione.
Non sono stati risolti i problemi posti dal governo dell’euro, nonostante siano tendenzialmente considerati l’ostacolo principale che impedisce agli Stati membri di procedere sulla via della completa unificazione politica dell’Unione; inoltre, non è stata risolta la questione delle frontiere e quella dei migranti, che stanno mettendo a dura prova soprattutto i Paesi mediterranei; non sono stati neppure affrontati i problemi nascenti dalla disparità delle politiche economiche, dei regimi fiscali, delle politiche monetarie e degli squilibri delle bilance commerciali e, per di più, neanche il problema dell’”assenza di legittimità democratica degli organi realmente decisionali dell’Europa”: Commissione, Consiglio e Banca Centrale Europea.
A parere di D’Eramo, perciò, la domanda che ci si dovrebbe porre, riguardo alla desiderabilità o meno della Brexit, dal punto di vista dell’interesse, posto che esista, dei rimanenti Paesi dell’Unione, è se la vittoria del “no” al referendum di giugno possa servire a risolvere i problemi dell’Europa appena elencati e se si desidera realmente superare lo status attuale dell’Unione, che la vede ridotta solo al ruolo di mercato comune.
Se si considera che, da sempre, la propensione britannica è stata quella di conservare lo status di mero mercato comune dell’Unione, esistono valide ragioni per star certi che la vittoria del “si” al referendum corrisponde, da parte dei popoli europei che ancora credono nella validità del progetto di un’Europa politicamente unita, all’augurio che il “si” possa realmente prevalere; ciò, perché la permanenza del Regno Unito all’interno dell’UE non servirà a risolvere nessuno dei problemi prima indicati, di vitale importanza per il futuro dell’Unione.
A far prevalere l’attenzione dei popoli europei nei confronti del Regno Unito è stato il fatto che, sin dall’inizio, la sua adesione, prima alla Comunità Europea, divenuta Unione col Trattato di Maastricht, è stata suggerita da motivazioni che hanno riguardato esclusivamente l’interesse britannico, costringendo, il resto dei Paesi membri ad accettare un’umiliante relazione asimmetrica, che è valsa a mettere su di un piedistallo più alto il Regno Unito rispetto agli altri Paesi. Al riguardo, non può essere dimenticato che la “Perfida Albione” ha sempre esercitato l’opzione di rinunciare, quando per sé conveniente, all’adozione delle regole votate dall’Unione per tutti i Pesi membri, negoziando, di volta i volta, a seconda degli interessi in gioco, numerosi “opt-out” dalla legislazione e dei Trattati europei.
Questa propensione trova conferma, per chi pensasse ancora conveniente la conservazione dell’adesione del Regno Unito all’UE, nelle parole pronunciate recentemente alla Camera dei Comuni da David Cameron: “Il nostro messaggio a tutti è che noi vogliamo un Regno Unito che abbia il meglio dei due mondi: tutti i vantaggi dei posti di lavoro e investimenti che derivano dall’essere nell’Unione Europea, senza gli svantaggi di essere nell’euro e delle frontiere aperte”. Nel 1979, il Regno Unito aveva rifiutato di entrare a fare parte del Sistema Monetario Europeo e, nello stesso anno, Margaret Thatcher ha preteso lo “sconto inglese” (British rebate), che ha consentito al suo Paese di pagare un contributo netto all’UE di gran lunga inferiore a quello degli altri Paesi (come, ad esempio, quello italiano, pari a 6,1 miliardi di euro, rispetto a quello inglese, di soli 3,8 miliardi).
Ogni volta, il motivo per cui il Regno Unito ha invocato l’”opt-out” per qualche deroga, è stata la convenienza a salvaguardare il suo ”eccezionalismo finanziario”, com’è accaduto con la decisione, nel 2012, di non aderire al patto di stabilità economica (fiscal compact). Il comportamento britannico di non aderire sinceramente al progetto europeo non ha avuto conseguenze negative solo sul piano economico-finanziario; esso è risultato deleterio anche con riferimento a materie non strettamente economiche, come nel caso in cui, tanto per citare il più grave, ha mancato di aderire all’accordo di Schengen e di concorrere alla soluzione del problema dei migranti.
Per tutte le ragioni sin qui esposte, un’uscita del Regno Unito sarebbe per l’Europa un vantaggio; essa varrebbe, infatti, ad impedire un ulteriore screditamento, agli occhi di buona parte dell’opinione pubblica europea, del progetto dell’unificazione politica del Vecchio Continente e ad evitare precedenti ai quali si ispirano nelle loro richieste di “opt-outing” molti altri Paesi, col rischio di trasformare l’Unione in una configurazione a “geometria variabile”, a seconda degli interessi di questo o di quel Paese giudicati meritevoli di una tutela unilaterale. Ma, a parere di D’Eramo, ci sarebbe un motivo più profondo a giustificazione della convenienza per l’Europa che il Regno Unito “se ne vada”.
A parte il problema del deficit di democrazia, che spinge i popoli europei ad essere governati da élite tecnocratiche, prive di ogni legittimazione politica, esponendo l’Europa al pericolo di una deriva autoritaria, sarebbe maturato il tempo in cui i popoli europei dovrebbero prendere coscienza – afferma D’Eramo – che “è proprio contro una sovranità popolare europea che ha sempre remato il Regno Unito”. L’ostilità più forte si sarebbe manifestata, non “contro la sopranazionalità dell’Europa, ma contro la democratizzazione”. Perché tutto questo? La risposta di D’Eramo, per quanto possa lasciare allibiti, per le sue implicazioni politiche, non è peregrina; ma, se per caso avesse un fondamento, e ciò che accade a livello globale sembra darne conferma, a tutti coloro che sono i più convinti europeisti non resterebbe che recitare un “de profundis” per la perdita di ogni possibilità che l’Europa possa fare un qualche passo avanti sulla via dell’integrazione politica, anche in un futuro remoto.
A parere di D’Eramo, se il Regno Unito è contro una maggiore integrazione europea, non è solo per via della necessità di salvaguardare l’eccezionalismo economico-finanziario della City londinese, ma anche per via del fatto che esso fa parte di un sistema di alleanze che configgono con le istanze europeiste. Intanto, come molti Stati dell’UE, il Regno Unito fa parte della NATO, l’alleanza atlantica il cui “dominus” è situato al di là dell’Atlantico; in secondo luogo, a differenza dei principali Stati europei aderenti alla NATO, come Francia, Germania o Italia e Spagna, il Regno Unito fa parte di un altro sistema di relazioni internazionali, indicato col nome di “Anglosfera”, che include, oltre al Regno Unito, gli USA, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda e il “Nucleo Bianco dell’ex Commonwelth”; tutti questi Paesi agirebbero a tutela dei propri interessi come un’”unica potenza militare integrata”.
La contemporanea adesione alla Nato e all’Anglosfera, in presenza di una “relazione speciale” che lega Regno Unito e USA, definisce i limiti dell’adesione del Regno Unito all’Unione Europea, dettati dalla “ricerca del massimo equilibrio possibile tra tutti vincoli posti dalle diverse alleanze”. Se così stanno le cose, perché allora viene esercitata, paradossalmente anche da parte degli USA, una forte pressione perché il Regno Unito continui a rimanere nell’UE?
L’interpretazione della risposta è lasciata alla sensibilità politica di ogni soggetto autenticamente europeista: “Proprio per la sua appartenenza all’Unione, Londra – afferma D’Eramo – consente ai capitali, alle banche, alle istituzioni statunitensi [oltre che alle proprie] libero investimento e movimento in tutta Europa”; vantaggio che Regno Unito e USA perderebbero nel caso in cui al referendum prevalesse il “si” alla Brexit. Gli USA, infatti, hanno bisogno di un “cavallo di Troia” britannico dentro l’Europa, anche perché la docile sudditanza di questa agli interessi statunitensi è cambiata con la fine dell’URSS; se dopo il secondo conflitto mondiale erano gli USA ad avere interesse a che gli Stati europei si unissero in funzione antisovietica, dopo la fine della guerra fredda, essi hanno intravisto il pericolo che un’Europa unita possa divenire una loro concorrente ed che l’euro possa diventare una reale alternativa valutaria alla primazia del dollaro. Così, gli USA, al di là dell’apparente interesse a che l’Europa approfondisca il processo di integrazione politica, in realtà hanno il loro principale interesse nel tenere l’Europa in una posizione di stallo e di costante debolezza, perché tramite la testa di ponte del Regno Unito sul Vecchio Continente, essi possano continuare a massimizzare la soddisfazione dei propri interessi materiali; tale è, ad esempio, al momento, quello di fare accettare il Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP: Transatlantic Trade and Investment Partnership), un accordo commerciale di libero scambio molto contestato, in corso di negoziato dal 2013 tra l’Unione europea e gli Stati Uniti d’America, con l’obiettivo dichiarato di integrare i mercati al di là e al di qua dell’Atlantico, riducendo i dazi doganali e rimuovendo, per una vasta gamma di settori, le barriere non tariffarie.
Ma di strabiliante non ci sarebbe solo l’apparente interesse degli USA a che il Regno Unito non abbandoni l’Europa; ironia della sorte, esisterebbe anche quello analogo della Germania e della Francia: la Germania, per l’interesse vitale a dotarsi di una dimensione finanziaria internazionale al servizio della propria crescita economica, come starebbe a dimostrare il perseguimento della fusione della Deutsche Börse di Francoforte con il London Stock Exchange; la Francia, per l’interesse a che il Regno Unito resti in Europa a bilanciare lo strapotere tedesco, che dilagherebbe senza limiti nell’ipotesi si verificasse la Brexit.
Giustamente, D’Eramo conclude che la ragioni che spingono tutti i Paesi apparentemente interessati a salvare il progetto politico, oltre che economico, di un’Europa unita non sono sostanzialmente credibili, in quanto si muovono a livello globale, secondo la “logica di potenza” di stampo ottocentesco, con strategie finalizzate a trovare, di momento in momento, l’equilibrio più conveniente per il loro sistema delle relazioni internazionali a geometria variabile, cambiando la valutazione dei loro esclusivi interessi in funzione dell’evoluzione della situazione contingente. Se l’intera analisi di D’Eramo corrisponde al vero, riguardo alla ripresa del processo di integrazione dell’Europa, e molti accadimenti di questi ultimi anni valgono a confermarla, c’è davvero di che essere preoccupati del fatto che della Brexit se ne parli solo in termini molto riduttivi.