Ricordando Salvatore Satta nel 114° anniversario della sua nascita
1 Agosto 2016Francesco Casula
Salvatore Satta nasce a Nuoro il 2 Agosto del 1902 e morirà Roma, colpito da un mare incurabile, il 19 Aprile 1975. Nello stesso anno verrà pubblicato postumo dalla Cedam il suo romanzo più noto Il giorno del giudizio.
Nel 1979 lo stesso esce i per i tipi dell’Adelphi. In pochi mesi vende 60.000 copie e conosce subito decine di edizioni. Riconosciuto come un capolavoro della letteratura non solo sarda e italiana, sarà tradotto in 19 lingue e gli procurerà una vasta fama in campo letterario. Il romanzo ha finito così per rappresentare un caso letterario, una specie di Gattopardo sardo, come è stato definito, proprio perché maturato accanto e al di fuori delle tendenze narrative correnti. È infatti il prodotto di una scrittura letteraria raffinatissima e di una straordinaria libertà espressiva che traggono origine da una cultura umanistica e filosofica profonda e vastissima, un’opera che rappresenta davvero una grande e drammatica metafora dell’esistenza.
L’apocalittico titolo del capolavoro di Salvatore Satta, Il giorno del giudizio, è mutuato dalla Bibbia, come del resto anche un altro, De Profundis. Il progetto originario del romanzo prevedeva due parti: la prima in 22 capitoli è stata portata a termine, la seconda invece è rimasta incompiuta, conta appena una pagina. Nella prima parte ricapitola i termini di una storia individuale e collettiva mentre nell’unica pagina della seconda parte racchiude il breve ma compiuto monologo del narratore che traccia l’inventario dei motivi dai quali è stato spinto a evocare le vite dei personaggi e ripensa a ciò che quell’atto ha prodotto. Una sintesi da giudizio conclusivo, appunto, che coincide col racconto del dramma interiore di chi si è distaccato da un mondo con cui sente il bisogno di fare i conti nel tentativo, vano, di riappropriarsene.
Il romanzo nasce – è lui stesso a scriverlo in alcune lettere – come “storia della famiglia che è la storia di Nuoro e della Sardegna”, “un’isola di demoniaca tristezza”. Con questo romanzo Satta ha inteso narrare, in voce individuale, l’autobiografia collettiva di Nuoro nel passaggio fatale dall’arcaismo alla modernità. E la famiglia Sanna Carboni, nel passaggio da una generazione all’altra, fa da filo conduttore dell’intero romanzo. Una famiglia che, pur se rustica e a volte indistinguibile da quella dei pastori e dei contadini, costituisce pur sempre una borghesia in ascesa e straniata dalla vera realtà sarda (si pensi al fatto che Satta stesso trascorse quasi tutta la sua vita adulta in Continente).
Ambienti e personaggi sono raffigurati con puntigliosità analitica e ogni asserzione ha il timbro di autenticità dell’esperienza vissuta anche se tutto è reinventato, reinterpretato, trasceso attraverso la memoria: che non è solo una ricostruzione del passato, e tanto meno l’allestimento di un museo di reliquie, ma piuttosto un ponte con il presente e con la propria coscienza del presente. Per prendere coscienza della propria identità è necessario infatti riconoscere il proprio coinvolgimento nel sistema di cui si fa parte. La morte è effimera e insieme eterna: è questo il tema che attraversa tutto il romanzo ed è presente fin dall’incipit, per poi essere ripreso in alcuni punti fondamentali della narrazione e anche nella pagina conclusiva. Con due dei suoi icastici, lapidari e fulminanti aforismi, “Nulla è più eterno a Nuoro, nulla più effimero della morte” e “La morte è eterna ed effimera in Sardegna non solo per gli uomini ma anche per le cose” Satta entra subito, per così dire, in medias res. Sono parole che colpiscono per la loro paradossale contraddittorietà, per quei due predicati fortemente antitetici, per gli ossimori che formano.
Il romanzo è pervaso dunque dal senso della caducità che toglie ai personaggi consistenza, vigore, vitalità. Per Satta, uomini e cose, eventi e storia sono e devono rimanere effimeri e fuggevoli, transitori, precari e labili. La vita e la morte hanno questa tragica connotazione. C’è di più: il morire di un individuo è inteso non solamente come un distacco dalla sua fisicità, ma anche come una sua cancellazione definitiva dalla memoria dei vivi. La non presenza del defunto comporta e implica, più o meno progressivamente ma inesorabilmente la sua non ricordanza da parte dei superstiti. E l’autore cita come esempio, la sorte delle sue nonne, quella paterna, di cui soltanto il cognome era rimasto nel timbro notarile di don Sebastiano e quella materna, il cui unico ricordo era un ritratto, scomparso poco dopo la sua morte, ma ormai nessuno sapeva più che era esistente.
Nell’aforisma “la morte è eterna ed effimera…” sembra di avvertire qualcosa di cupo e di misterioso, un cupio dissolvi perentorio e oscuro: neanche la morte può avere un significato, o meglio deve deperire nel suo significato. Si delinea così una prospettiva infinita di caducità, in un tragico e chiuso orizzonte, senza speranza: ”Donna Vincenza era una donna senza speranza”. L’autore impiega il discorso indiretto uniformemente attraverso tutto il romanzo, con l’esclusione di alcune iniezioni autoriflessive su cui in prima persona si sofferma, quasi per rallentare il flusso della narrazione. Il discorso assume allora un andamento divagatorio e digressivo con un ricorso frequente a prolessi e analessi.
Nel Giorno non c’è dunque che la voce del Satta, tutto il resto è silenzio. Silenzio assoluto dei personaggi e quindi assoluta mancanza di uno scambio di voci, di interazione di due espressioni, di sovrapporsi di due stili. L’io narrante volontariamente si sostituisce alle voci degli altri. In questo romanzo infatti l’interlocutore non esiste e di conseguenza non esiste la sua volontà. Allegoricamente, in un’operazione metalinguistica all’interno del testo, troviamo esemplificato quest’atto repressivo come una pratica comune nella vita dei Sanna-Carboni e dei nuoresi, si pensi alla sorte di Donna Vincenza, zittita ripetutamente da Don Sebastiano che fa leva sulla inutilità e ridondanza della voce della moglie. La caratteristica dominante del suo linguaggio è il nitore e la profondità della parola, l’asciutezza – tacitiana, verrebbe da dire – dello stile aforistico, degli enunciati sentenziosi, proferiti con l’assertività di chi ribadisce verità indiscutibili.