Ricordare, testimoniare, scrivere

1 Giugno 2007

MEMORIA

Bastiana Madau

Nella nostra società ipertecnologica organizziamo incessantemente enormi depositi di memoria, quasi avvertissimo sia il rischio che mina capacità e volontà di ricordare, che la paura di perdersi in un infinito, globalizzato, eterno presente. Tuttavia ci sono società per le quali la memoria è soprattutto una ferita cruenta della mente e per le quali la rimozione potrebbe sembrare un rimedio efficace al dolore. Ma non è così. Bene lo sa, ad esempio, lo scrittore e poeta palestinese Ibrahim Nassrallah, che nel suo romanzo intitolato Dentro la notte (Ilisso, 2004), scrive: «Dimentichiamo per sopravvivere. Ma per non morire non dimentichiamo mai del tutto».
In Italia lo slogan “per non dimenticare” caratterizzò una miriade di iniziative che nel corso di lunghi decenni riproponevano la memoria di quel 12 dicembre in cui il terrore indiscriminato entrò nella storia del Paese: per non dimenticare la violenza, per non dimenticare l’ingiustizia di non poter far valere la verità. Così è stato sia per le vittime della guerra invisibile chiamata strategia della tensione che per le tante vittime di mafia e per i loro parenti, «condannati – come ha detto Claudio Fava – a essere per sempre testimoni della vita e della violenza che l’ha spezzata».
«Volevo che i giovani sapessero, capissero, aprissero gli occhi. Guai se i giovani di oggi dovessero crescere nell’ignoranza, come eravamo cresciuti noi della generazione del Littorio. Oggi la libertà li aiuta, li protegge. La libertà è un bene immenso, senza libertà non si vive, si vegeta», dichiarò Nuto Revelli nel 1999, nel suo discorso per in conferimento della laurea honoris causa.
Così anche Luigi Pintor nel suo libro del 1991 intitolato significativamente Servabo, parola latina che condensa il senso profondo della memoria nel suo valore civico: conserverò, terrò in serbo, terrò fede, ma anche servirò, sarò utile. A dispetto dei depistaggi del tempo e dell’anima, solo la memoria può impedire l’insediarsi di allarmanti processi storiografici: dal revisionismo storico grande – sul passato remoto del fascismo, il nazismo, la Shoah – a quello piccolo sul passato prossimo della vicenda italiana, l’eversione, le stragi.
“Per non dimenticare” sono anche le parole con cui Giacomo Mameli chiude il suo ultimo libro La ghianda è una ciliegia (Cuec, 2006), ed è appunto nel solco di questo lungo grido della storia contemporanea che nasce quest’opera straordinaria, che ci costringe a riflettere sul passato ma anche sulle guerre di oggi. Mameli infatti – senza mai minimizzare o reificare il dolore del singolo uomo ma, anzi, trasmettendolo al lettore con grande pietas – trascende la realtà individuale per raccontare la tragica esperienza collettiva della seconda guerra mondiale con le rievocazioni dei soldati di Perdasdefogu (oggi novantenni) e delle loro peripezie in Russia, in Albania, in Grecia, nei campi di concentramento tedeschi e degli anni passati in India e in Sudafrica.
L’opera – pur rielaborata nella finzione del romanzo – si fonda sulle testimonianze reali degli anziani che, oltre sessant’anni fa, furono improvvisamente strappati dall’operoso e agreste microcosmo per essere catapultati in un mondo dilaniato dalla sofferenza.
La guerra non è mai giusta e ancor meno intelligente. La guerra è «tonta», come dice Peppino Carta fu Giovanni e di fu Puddu Doloretta (p.54) e «stupida» come dice quel Vittorio Tegas (p.307) che sa delle tre Italie perchè ha letto Chabod… Stupida la guerra, e le ragioni per farla, quelle di ieri in nome del fascismo, quelle di oggi in nome di una presunta democrazia. Ragioni irragionevoli, soprattutto se la si guarda, la guerra – com’è giusto che sia – dalla parte di tutte le genti che l’hanno subita anche quando erano convinte di combattere una causa giusta. Il libro di Mameli è vicino anche a Emilio Lussu che in Un anno sull’altipiano (1938) propone una realtà feroce e cruda dimenticando per sempre il mito romantico della morte eroica; qui la guerra «stupida e tonta» dei soldati di Perdasdefogu è quella «degli ordini sbagliati, delle scarpe di cartone, dei sacrifici umani a scopo dimostrativo».
In La ghianda è una ciliegia Pietrino-Strìa (chiamato come il fratello maggiore morto sul Carso) racconta a pagina 122:
«A me – come a quasi tutti i miei amici di Foghesu – il fascismo piaceva davvero, lo sentivo dentro il cuore e dentro l’anima e mi entusiasmava… Mi sembrava che dovevo ringraziare il fascismo se avevo lavorato a Carbonia, se avevo visto il Duce, se avevo conosciuto il continente. Senza fascismo io sarei rimasto o contadino o pastore. Soldato è meglio. Sì, ragionavo così». Pietrino Civetta viene catturato dagli inglesi, deportato da Alessandria al Cairo, fino al Sudafrica in un campo di concentramento dove, non essendoci niente da fare, si mette a contare le spine del reticolato: «Contavo quelle spine rivolte in su. Il rettangolo lo avevo chiamato “Su campu” e gli avevo dato per confini i nomi dei paesi. Il lato lungo di nord era Ulassai, il lato lungo di sud Escalaplano. Il lato corto di nordovest Esterzili e il lato corto di nordest Tertenia. La gara l’aveva vinta Ulassai con 11.245 spine mentre Escalaplano si era fermato a 10.387. I vincitori erano quindi Ulassai ed Esterzili. Vincitori di che cosa? » (p.134). Domanda retorica che vale per Ulassai ed Esterzili, per quella guerra e per tutte le guerre del mondo.
Ci sono dunque anche qui i volontari, i fascisti convinti, gli ammiratori del duce, che partiranno entusiasti per ritornare atrocemente delusi dal dramma della sconfitta e dalla lancinante consapevolezza dei falsi miti del regime – come anche Orazio Mameli (padre dell’autore e alla cui memoria il libro è dedicato) che «dalla fede cieca del fascismo era passato a quella ragionata del sardismo».
Ma la maggior parte di coloro che partirono non lo fecero per eroismo, non per fascismo, come un dice un altro personaggio-testimone, Mario Casu, parlando di sé come di un disgraziato mandato a fare la guerra da un paese dove «la guerra si chiamava fame».
Una miriade di trame legano le narrazioni dei poveri soldatini di Foghesu ai personaggi dell’indimenticabile Centomila gavette di ghiaccio di Giulio Bedeschi: sono le vicissitudini che brutalmente tolgono ogni senso all’essere catapultati in una guerra inappartenente, in condizioni disumane. Nel primo bellissimo racconto intitolato La penna di asfodelo così ricorda Vittorio Palmas il lungo viaggio per fare la guerra: «Parto di notte a piedi, da solo, a far la guerra, io che non conoscevo una cartuccia se non quella che aveva ucciso la martora. Tutto quello che possedevo l’avevo addosso, né sacco né scatola di cartone, neanche un soldo in tasca … avevo una camicia, mamma l’aveva chiesta al figlio di suo cugino Fracànzu, un paio di pantaloni e una giacchetta che sembrava rubata a un bambino di dieci anni. Calze non ne indossavo». E il racconto prosegue raccontando le ore di camminate a piedi sino ad arrivare a Serra Longa, poi a Seui che per contrasto con il villaggio ricco solo di pietre sembra una grande città, e da lì il treno per Cagliari e poi la nave per Civitavecchia: Roma, Torino, e sempre il freddo, la fame, la stanchezza, gli incontri con altri diseredati, ma anche la solidarietà (bella in questo senso quella prima figura: una donna emigrata a Torino incontrata sulla nave, che al giovane di Foghesu compra pane e acciughe). Via via che i racconti si succedono cambiano i nomi delle persone e dei paesi di provenienza dei soldati, e cambiano le guerre, ma le storie si assomigliano tutte perché tutte si assomigliano le guerre: «Arriviamo in Russia – racconta Monni Pierino, classe 1920. – Arriviamo in Russia e neanche un albero, neanche una casa e una strada che non fosse bianca. E comprendo che quella di Foghesu non era neve ma schiuma di latte, perché la neve vera uccide per il freddo e per il gelo che ti crepa i piedi e le mani. Nei primi giorni di Russia a me e ai miei compagni di sventura il gelo aveva crepato anche la suola degli scarponi» (p.275).
Il libro raccoglie anche le diverse interessanti testimonianze delle anziane che ricordano la loro guerra quotidiana contro la fame, i durissimi lavori, l’attesa del ritorno casa dei fratelli. Per tutte ricordo la cernitrice dello struggente racconto Italia è morta, che lavora alla miniera di carbone in fondo alla valle del fiume, e di quel lavoro morirà. E ricordo le donne del rosmarino, nel racconto omonimo, dove la protagonista, Luigina, racconta cose terribili in modo esilarante. Nonostante la loro drammaticità infatti i racconti degli anziani sono spesso carichi di humor e di ironia, ovvero della leggerezza di cui sono capaci solo coloro che hanno attraversato un oceano di dolore.

(Dedico questa recensione all’indimenticabile Giacomino Zirottu, maestro e amico).

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