Rilanciare il lavoro
1 Marzo 2014Marco Ligas
È ricorrente nei programmi dei partiti, sia del centro destra che del centro sinistra, la proposta di un rilancio dell’impresa. Indubbiamente la gravità della crisi rende comprensibile e in qualche modo legittima questa aspettativa; non a caso la stessa Confindustria ne sollecita l’avvio sperando che il nuovo governo dia delle risposte alle sue ripetute sollecitazioni. Senza una tutela dell’impresa, si dice, non potrà esserci alcun rilancio dell’economia.
In Sardegna lo stesso Presidente neoeletto ne ha fatto riferimento nel corso della campagna elettorale ipotizzando interventi in questa direzione.
Si tratta di un obiettivo condivisibile? Certamente, anche se sarebbe più pertinente la proposta di un piano per il lavoro. La definizione “rilancio dell’impresa” si presta infatti a qualche ambiguità perché mette il diritto al lavoro, e più in generale i diritti dei lavoratori, su un piano secondario, di subalternità rispetto alle sorti dell’impresa o dell’economia o del mercato.
E in ciò c’è una concezione riduttiva che capovolge il senso dell’articolo 1 della nostra Costituzione. Come sostengono diversi costituzionalisti (per esempio Zagrebelski) la Costituzione pone il lavoro come principio di ciò che segue e ne dipende: dal lavoro, le politiche economiche; dalle politiche economiche, l’economia. Nel corso degli ultimi decenni al contrario c’è stato, in tutti i paesi dell’occidente, un progressivo rovesciamento di questo concetto. E così i principi dell’economia (naturalmente quella neoliberista) stabiliscono le politiche economiche e queste definiscono, buon ultimi, i diritti e i doveri del lavoro.
Molti si chiederanno se sia opportuno, soprattutto in questa fase delicata della crisi economica con una disoccupazione crescente, sottilizzare sulle differenze tra rilancio dell’impresa e avvio di un piano del lavoro.
Ebbene si, non solo è opportuno ma è indispensabile se non si vuole che il lavoro assuma nuovamente le peculiarità che ha avuto sino ad un secolo fa, quando essere lavoratori significava possedere una carta dei diritti di seconda serie che comportava l’esclusione automatica dalla vita sociale e politica. Solo successivamente, in seguito alle lotte operaie, l’essere lavoratore è diventato il fondamento della vita sociale, il principio dell’inclusione.
Il caso Electrolux, con la richiesta della multinazionale svedese di una drastica riduzione dei salari per evitare il trasferimento della produzione in Polonia, la dice lunga sugli obiettivi che molti imprenditori, piccoli o grandi che siano, intendono realizzare quando parlano di rilancio dell’impresa.
Questi patrocinatori delle riforme pensano al ridimensionamento dei salari, alla riduzione del cuneo fiscale, alla richiesta di investimenti statali per la creazione di opere pubbliche e di infrastrutture che siano funzionali al completamento dei cicli produttivi, compresa la destinazione delle merci nei punti di vendita.
Pensano a tutto ciò consapevoli che quando non avranno più convenienza a continuare l’attività produttiva lasceranno i territori che hanno devastato e ne cercheranno altri più vantaggiosi. E manterranno questi comportamenti sino a quando non saranno costretti dalle istituzioni pubbliche che li hanno aiutati nelle loro attività a restituire quanto hanno ricevuto e a risanare i danni che hanno provocato.
In Sardegna sappiamo bene quanti imprenditori siano venuti nell’isola, aiutati da Amministrazioni complici, con lo scopo di ricevere i contributi pubblici senza mai presentare rendiconti.
La delocalizzazione di cui si parla oggi è solo l’aspetto contingente di una filosofia che è sempre finalizzata alla difesa del primato dell’economia e della politica economica.
Ha ragione Zagrebelski quando ci ricorda che il lavoro continua ad essere la conseguenza di fattori diversi, con i quali deve risultare compatibile. Non sono questi altri fattori a dover dimostrare la loro compatibilità col lavoro. Insomma il lavoro, da principale, diventa consequenziale, la variabile dipendente.
Eppure la Costituzione pur affermando che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro non ammette forzature o interpretazioni arbitrarie, non dice per esempio che per lavoro si deve intendere solo quello della “classe lavoratrice”; ribadisce che sono lavoratori sia quelli “del braccio che quelli della mente”, sia gli imprenditori che gli operai. Il lavoro spetta a tutti perché deve essere un fattore di inclusione.
E proprio per queste ragioni non sarebbe più opportuno parlare di rilancio del lavoro e non di rilancio dell’impresa? A meno che non si voglia usare questa sottile(?) differenza per rimarcare una differenza di classe, un’affermazione lontana dalla nostra Costituzione.
1 Marzo 2014 alle 21:04
Il lavoro non è considerato il contributo collettivo al benessere sociale, la partecipazione al convivere comune con la elevazione, a dignità di uomo e cittadino, della persona. L’uomo, inserito nella catena di produzione,è rispetto all’impresa, un elemento, sebbene singolare, della stessa. L’ottica costituzionale è proprio ribaltata: non è l’uomo che si valorizza ma la merce che in quanto trasformata produce profitto per l’impresa.
I diritti conquistati sul lavoro sono arrivati con il progredire della civiltà e con la conquista delle democrazie.
Possiamo anzi dire che la civilizzazione dell’umanità è iniziata proprio con la liberazione della schiavitù,
lo schiavo come strumento di lavoro.
Ma anche tutte le altre conquiste civili: libertà, giustizia democrazia….., come oggi le viviamo, son state opera delle rivendicazioni degli sfruttati, degli oppressi….: I dominatori non avevano bisogno di ampliare e rivendicare diritti, in quanto loro li possedevano per averli usurpati agli altri. La civiltà è quindi una conquista delle classi povere.
Ma oggi con la crisi in atto , si sta manifestando un’aggressione a tutto tondo al diritto al lavoro, anzi sembra che la crisi si possa sanare soltanto se il lavoro rinuncia ai diritti conquistati.La globalizzazione e le sperequazioni fra gli stati ha portato ad un confronto salariale penalizzando i paesi più sviluppati. Ma quali strategie sviluppare, per non arretrare sui diritti? La democrazia deve evolvere non annichilirsi.