Infedeli allo sviluppo
16 Aprile 2008
Gianluca Scroccu
Nel suo Breve trattato sulla decrescita serena, appena edito da Bollati Boringhieri, l’economista Serge Latouche parte dall’assunto oramai inattaccabile secondo il quale l’attuale crescita infinita del nostro sistema economico-produttivo non è più compatibile con una Terra che ha risorse finite. Intendiamoci, una frenesia di crescita che riguarda solo il Nord del pianeta, viste le condizioni del Sud (anche se il modello prodotto dai paesi ricchi impone non solo schemi economici ma anche modelli di consumi sfrenati che si stanno sicuramente imponendo attraverso i media e che raggiungono in misura crescente i paesi africani, asiatici e sudamericani).
Forse il termine “decrescita” non rende piena giustizia a questa battaglia culturale perché può terrorizzare molti che potrebbero considerarla come la mera rinuncia ad ogni comodità fornita dalla modernità galoppante. Latouche, comunque, non ritiene che la decrescita possa portare ad una riduzione della felicità umana e della qualità della vita delle persona, essendo fermamente convinto della necessità di uscire da questa “tossicodipendenza da crescita” tutta fondata sulla accumulazione illimitata generata dal messaggio pubblicitario che ci porta a considerare obsoleti i nostri acquisti anche recenti e chi ci spinge verso la smania di comprare e consumare senza freni (vedi i 150 milioni di computer considerati “vecchi”, trasportati nelle discariche del Terzo Mondo o, ancora, la privatizzazione crescente di beni pubblici come l’acqua). Per rovesciare tutto questo occorre supportare la sfida della “decrescita serena”, iniziando a lavorare e produrre di meno per cambiare radicalmente la nostra visione della quotidianità, stimolando e incrementando beni relazionali come la conoscenza, il sapere e l’arte.
Il discorso è molto complesso in quanto ripensare le linee produttive e il destino delle merci, ad esempio quelle che normalmente si buttano dopo che sono state utilizzate, presuppone un nuovo e diverso indirizzo delle scelte politiche e del mondo economico-industriale (in proposito sarebbe da leggere anche lo stimolante saggio dello storico Pietro Bevilacqua, “Miseria dello sviluppo”, appena pubblicato da Laterza).
Ma l’abbandono della crescita illimitata diviene, per l’autore, la condizione indispensabile per la costruzione di un nuovo umanesimo capace di superare l’elemento fideistico dettato dalla crescita e dalla logica onnipotente dell’incremento del Pil. Decrescita significa infatti equilibrio costante tra sviluppo economico e risorse disponibili, perché non è vero che la crescita del Prodotto Interno Lordo conduce al vero progresso. Latouche suggerisce di superare il principio dei liberisti secondo il quale comunque il progresso economico riuscirà ad arrivare alla soluzione del problema ecologico e di mettere in moto, invece, il circolo virtuoso delle “otto R” che servirebbe per delineare una decrescita serena, e cioè «rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare (ovvero la riconversione dell’apparato produttivo, concetto importantissimo specie per una regione come la Sardegna), ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare».
Tutto questo è possibile se alle logiche della competizione subentrano quelle dell’altruismo e della collaborazione reciproca. Ed in effetti ribaltare il dogma secondo cui il progresso si misura sulla trasformazione in denaro della nostra qualità della vita e del nostro tempo diventa la prima vera priorità per ogni sostenitore della decrescita, così come il conservare e rivalutare l’economia su scala locale con meno trasporti, catene di produzione a favore invece della centralità della produzione locale di qualità opposta ai flussi di capitali e alle logiche delle multinazionali (sotto questo punto di vista giustamente Beppe Grillo non perde occasione di sottolineare i danni dei camion che girano vuoti o delle mozzarelle che viaggiano a velocità supersoniche, inquinando e contribuendo in tal modo alla distruzione del pianeta).
Per Latouche si rende necessario superare la logica per cui il territorio diventa un luogo dove ognuno può esercitare la propria sfrenata ricerca mirata alla soddisfazione del profitto. È arrivato il momento di smontare il mito della crescita, di definire nuovi parametri per le attività economiche e produttive, di elaborare un’altra cultura, un altro sapere e un altro saper fare, sperimentando modi diversi di rapportarsi col mondo per abitare in una società dove venga sconfitto ogni tipo di dominio e forma di prevaricazione che impedisca di vivere la propria esistenza senza costrizioni, sociali e politiche. La politica, sotto questo punto di vista, si mantiene lontanissima, anzi Latouche è convinto che se qualche politico facesse della decrescita uno dei cardini del suo programma politico rischierebbe la vita; accostamento non così peregrino se pensiamo al discorso sulla reale ricchezza delle Nazioni e sul Pil che quarant’anni fa fece Robert Kennedy, assassinato tre mesi dopo.
Su questi temi, il ritardo della sinistra (in tutte le sue declinazioni) è molto rilevante, e questo perché è rimasta legata per lo più a logiche meramente produttiviste (nonostante le lodevoli ma rare riflessioni di autorevoli e amati leader come Palme e Berlinguer).
Capire che il vero miglioramento dei cittadini si misura su altri parametri che non siano solo la quantità delle merci rappresenta la vera sfida del XXI secolo. A partire dalla sinistra italiana, alla ricerca di un nuovo progetto di società democratica capace di impegnarsi per la salvezza del bene comune e per costruire, finalmente, una politica a cui le donne e gli uomini di questo Paese possano guardare per riconquistare la fiducia nel presente e la speranza del futuro.