Roberto Spano. Permacultura significa cultura permanente
1 Marzo 2017Cristina Ibba
Per il secondo anno consecutivo, a S. Gavino Monreale, si è tenuto un corso teorico e pratico di “Introduzione alla permacultura ”. L’ideatore e curatore è Roberto Spano, 36 anni, ingegnere con master in “Architettura bioecologica e innovazione tecnologica per l’ambiente “e master in “Recupero e riqualificazione del patrimonio architettonico storico e rurale”. Vive tra la Sardegna , sua terra natia, e il Messico, dove ha iniziato il suo percorso di Permacultura e ha approfondito le sue conoscenze in materia di agricoltura organica e rigenerativa e dove è impegnato in progetti di rigenerazione urbana, socio-ambientale e agricola di aree marginali quali le periferie della conurbazione di Città del Messico e le piccole realtà culturali e agricole in collasso della provincia sarda e del Messico.
Lo intercetto alla fine del corso. La prima domanda doverosa è: che cos’è la permacultura ?
E’ complicato rispondere perché la permacultura è un qualcosa in continua evoluzione. E’ nata alla fine degli anni ’70 come disciplina sistemica che metteva insieme tanti campi del sapere, non solo agricolo, ma geografico, del paesaggio, dell’etno-botanica, insomma tante discipline scientifiche scollegate tra loro che soffrivano di quello che può definirsi “l’ignoranza particolare della specializzazione”. Permacultura significa proprio cultura permanente . Buona parte dei suoi concetti di base li deve ai suoi fondatori australiani Bill Mollison e David Holmgren.
Da cosa nasce tanto interesse per la permacultura in questi ultimi anni in Europa, in Italia e anche in Sardegna ?
Io credo che siamo in una fase particolare della storia dell’umanità. Gli stessi fenomeni che si vedono in Sardegna (perdita di fertilità dei suoli, desertificazione che avanza, alluvioni violente e siccità prolungata) li ho potuti vedere anche in Messico o in Spagna. C’è tanta gente adesso chiamata “new rural” che si sta avvicinando alla terra, all’ auto-produzione , alla natura in generale. E’ come se fossimo andati troppo oltre distaccandoci da qualcosa che invece fa parte di noi. Ci sono anche tante città , addirittura megalopoli, che hanno avviato progetti di permacultura urbana. Anche gli esperimenti delle “città in transizione “ (transition town) sono applicazioni dei principi della permacultura.
Quindi ci sono giovani che si sono assunti la responsabilità e hanno un ruolo attivo nella costruzione di un altro modello sociale ?
C’è una buona risposta da parte dei giovani . Sono quelli che riescono ad uscire da un certo sistema informativo e a crearsi una controcultura. Perché la permacultura nasce come controcultura e lo è ancora. E’ una cultura sempre in evoluzione che ha seguito diversi impulsi negli anni ’80, ’90, 2000. Si è capito che si dovevano analizzare i fenomeni da un punto di vista più sistemico, imitando gli ecosistemi naturali. Tanti studi scientifici hanno mostrato che nelle relazioni tra esseri viventi nella terra non prevale la sopraffazione e la competizione, bensì il mutualismo e la simbiosi. Quindi è realistico pensare ad una società umana che si basi , invece che sulla competizione , la predazione e l’autodistruzione, sul mutuo aiuto.
Si potrebbe obiettare che sia un tornare indietro, un modo per bloccare il progresso scientifico e tecnologico, che abbiamo pensato essere, da almeno 200 anni, la panacea per tutti i mali.
Il cosiddetto “progresso” è un culto, una religione. Io sono ateo in questo senso, non riesco a riconoscermi nel culto della tecnologia. Il petrolio ha cambiato la nostra vita, ha sicuramente portato anche dei benefici. Adesso però dobbiamo fare i conti con la penuria di risorse, dobbiamo avere consapevolezza della loro limitatezza. Pertanto ci dobbiamo istruire per lavorare all’interno di questi limiti . Non è un tornare indietro , è necessario recuperare il “saper fare”, utilizzare tutti i vecchi e i nuovi saperi in maniera più olistica, più intelligente, per limitare l’uso delle risorse energetiche e delle materie prime. Come si dice in permacultura si deve partire dalla testa, poi usare il cuore e infine le mani per agire. Siamo in una fase in cui non si ha bisogno di sostenibilità ( ma cosa dobbiamo sostenere?) siamo arrivati all’insostenibilità totale. Qualunque prodotto, anche il più efficiente è concepito per aumentare i consumi. Più che continuare a produrre, per far crescere il PIL, dobbiamo rigenerare risorse, riorganizzare risorse. Per me la parola chiave non è sostenibilità o resilienza , ma è rigenerazione, perché abbiamo bisogno di rigenerare tutto a partire dalla nostra vita, dalla terra , dai suoli. Dalla rivoluzione industriale in poi abbiamo immesso nell’atmosfera tanta di quella CO2 da modificare il clima del nostro pianeta. Conoscere le leggi della natura ci permette di poter lavorare in alleanza con la natura e con la microbiologia del suolo, rispettandola invece di essere, noi umani, una vera e propria piaga per il pianeta. Poi c’è il discorso parallelo della rigenerazione a livello personale, a livello sociale, rigenerare il nostro modo di vedere le cose, di interagire tra noi nelle comunità. Questo è il discorso delle città in transizione : si parte da noi, non si aspetta il cambiamento da parte dei governi o dei potenti di turno.
In queste settimane abbiamo assistito all’ennesima protesta degli agricoltori e degli allevatori. Anche loro sono sempre più vittime dei ricatti dell’agro-industria. Infatti i pesticidi buttati nei campi sono un quantitativo talmente feroce da aver già inquinato tantissime falde . Mi sembra che questo tipo di agricoltura sia un’agricoltura di morte che uccide falde, animali e anche noi umani e nonostante tutto questo gli agricoltori non se la passano neanche bene.
Hai detto una parola chiave: alla fine è un modello di morte. E’ il modello sviluppato dalla chimica del petrolio. Si tratta di capire quali sono i meccanismi della vita e creare un’agricoltura della vita e non della morte. In America Latina e anche in Australia ci sono tanti esempi di agricoltura naturale che vivono e prosperano senza finanziamenti pubblici. Da noi l’80% dei finanziamenti dati agli agricoltori ritorna nelle mani delle industrie chimiche, farmaceutiche e automobiliste che producono macchine agricole. All’ agricoltore il restante 20% non può bastare . Le multinazionali dell’agro-industria ( Bayer-Monsanto) sono così forti perché noi abbiamo delegato il potere nelle loro mani. Se invece noi ci riappropriamo del nostro saper fare, del fare comunità, tutto cambia e anche in maniera radicale. Sicuramente è più longeva una bio-regione che una multinazionale che dura meno della vita di un essere umano. Oggigiorno sembra che il potere delle multinazionali , delle corporazioni sia incontrastabile , ma non è così. Occorrerà un processo di transizione lungo e non semplice, perché i tentacoli e le trappole del sistema sono ovunque.
Pensi che in Sardegna siamo avvantaggiati nell’intraprendere questo percorso, perché la distruzione del suolo, del territorio, del paesaggio, ma anche delle comunità, non è avvenuta in maniera così violenta come in altre parti ?
Si da un certo punto di vista siamo pochi, anche se mal distribuiti, perché la maggior parte della popolazione vive nelle coste e in insediamenti recenti e disfunzionali . Ci sono tanti territori che potrebbero essere recuperati anche in maniera rapida , non solo a livello ambientale , ma anche umano e lavorativo, se solo ci fosse uno zoccolo duro di popolazione cosciente e capace di avviare questo processo. Ci sono tanti giovani che stanno tornando alla terra , spesso quella dei loro nonni, dopo vari percorsi molto lontani dalla terra , giovani laureati in psicologia, filosofia, ingegneria con una coscienza completamente diversa e quindi un approccio diverso , non legato all’agro-industria, un approccio più ecologico legato all’agricoltura sinergica , biodinamica e naturale.
Quindi si parte da piccole realtà che però rompono quel flusso continuo di persone passive rispetto a questo modello di società basato sulla crescita infinita?
E’ l’utopia dei luoghi, non della fuga, l’utopia della ricostruzione della realtà nelle quali viviamo. E’ quell’utopia che dobbiamo seguire per rigenerarci, per rigenerare le nostre comunità, rigenerare i nostri ambiti di vita e lavorativi. Tutti questi focolai di rinascita fanno ben sperare. E’ importante dare esempi di cambiamento, far vedere anche a chi è distante da questi discorsi che ci sono alternative , che non esiste solo un modello. C’è tanta diversità nel mondo ed è la nostra ricchezza. Anche se siamo in un periodo che ha bisogno di grandi velocità, noi accettiamo la lentezza del cambiamento. E ripartiamo da questi luoghi.