S. Imbenia, i nuragici e Marchionne

16 Gennaio 2011

Anfore S. Imbenia

Marcello Madau

Mentre mi accingo ad esporre alcune riflessioni sul sito nuragico di S. Imbenia, nei pressi di Alghero, non riesco a separarmi dalla questione forte posta dal drammatico referendum della FIAT. Non solo per riferimenti di classe, ma anche per la relazione che pure unisce categorie così diverse di tempo, spazio e natura.

Il sito di S. Imbenia, adagiato nel Golfo di Porto Conte, ospita, fra un mare incantevole ed abusi edilizi che ne strangolano e talora contengono le vaste tracce, un’area archeologica di grande valore.
Le scoperte degli ultimi anni l’hanno proiettata sulla ribalta scientifica internazionale.
Entro un abitato nuragico sono emersi materiali fenici e greci della prima Età del Ferro da Libano, Palestina, Eubea, Cipro, Corinto: i più arcaici del Mediterraneo di occidente, in alcuni casi (come nel vaso a ‘semicerchi pendenti’ e diverse ceramiche provenienti dalla fascia siro-palestinese) precedenti quelli delle più antiche ‘colonie’ greche e fenicie. Prima di Pithekuossai (Ischia), Nora, Sulci. Nei tempi della fondazione di Cartagine. Segno di presenza ‘aliena’ più stabile che occasionale entro una comunità nuragica.
La grande ricchezza mineraria ed agricola del territorio e, ancora, la sua significativa posizione geografica sulle rotte, con l’approdo così profondo, suggestivo e riparato, trovano conferma nella successiva età romana in una grande e ricca villa dipinta.
Ma è il villaggio nuragico che, da decenni, rivela scoperte – soprattutto nei recenti scavi dell’Università di Sassari condotti da Marco Rendeli – e livelli di impressionante complessità, rivoluzionaria per più di un paradigma. Era il sito che ‘mancava’ dopo i noti ritrovamenti che da oltre un secolo segnavano nella Nurra di Alghero come ‘fantasmi’ (o come semplici oggetti, magari portati o imitati dai nuragici), i celebri bronzetti di tipo fenicio del nuraghe Flumenelongu e del pozzo sacro di Olmedo.
L’integrazione fra nuragici e ‘altri’ – almeno in questo bacino – pone certamente ulteriori elementi a favore di un concetto dinamico e non statico dei quadri antichi dell’identità sarda.
Tale integrazione non necessariamente avvenne dappertutto: nello stesso algherese sembra non esservi traccia, nel non lontano e celebre nuraghe Palmavera, di tale esperienza, e leggersi piuttosto, nel modello di nuraghe al centro della grande ‘Capanna delle riunioni’, un’alterità memoriale.
Ma a S. Imbenia (come, pur in tempi successivi, in diversi contesti nuragici e fenici), la relazione è forte ed aperta. La realtà è ‘mista’, dinamicamente contaminata. Con buona pace delle sceneggiate isteriche del sardismo reazionario ogni qualvolta si parla di fenici, o di progetti che il nome dei fenici portano: un’entità della quale si arriva, delirio che genera delirio, a negare l’esistenza, in un patetico ma concettualmente preoccupante ‘negazionismo’ (è probabile che una delle ragioni sia l’incapacità di capire, con relativo fastidio, entità multiculturali o – con termine che non amo ma in uso e dotato di una sua efficacia – meticcie).

Quello dei nuragici di S. Imbenia è un rapporto con Fenici che arrivarono già con profili ‘compositi’ – ciò che spiega meglio la loro ‘multiculturalità, ma anche le loro relazioni – grazie ai segni filistei, libanesi e ciprioti, e le ceramiche euboiche: contesti così articolati noti in oriente e nel mar Egeo, a Cipro come in Siria e in Fenicia.
I segni del mutamento indigeno sono evidenti: mi colpiscono i vasi della tradizione lavorati al tornio, innovazione tecnologica spia di una profonda trasformazione dell’organizzazione sociale ed economica della comunità. Qualcosa di più di una serie di solchi regolari all’interno della ceramica, ma un salto nella divisione sociale del lavoro che ne presuppone altri.
Questo incontro stupefacente, che ancora ci darà sorprese, avviene con una forte connotazione metallurgica (il rame di Cala Bona?), con il bronzo utilizzato e riutilizzato in quantità e modalità sorprendenti; si mostra nella circolazione di anfore vinarie fenicie e fatte in ‘impasto indigeno’ alla maniera fenicia, destinate a far circolare nel mediterraneo vino sardo. Si evidenzia, mi indicava in una visita al sito il collega Marco Rendeli, nella stessa disposizione e funzionalità degli spazi costruiti.

I festeggiamenti dell’Unità d’Italia possono diventare un momento di riflessione alto sul senso di questa unità: senza eroi, certamente senza pienezza delle culture di tutti i popoli coinvolti nei confini disegnati e stabiliti nel 1861. E anche quanto apprendiamo da S. Imbenia può essere utile, poiché l’insegnamento del passato ci consegna non solo dati materiali, ma radici storiche e scenari simbolici ai quali rivolgersi, negati da buona parte dei percorsi della cosiddetta ‘unificazione’.
I greci dell’Eubea, il cui marchio si riconosce nelle ceramiche di S. Imbenia, fondarono qualche decennio dopo – con un manipolo di fenici – Pithekoussai, la prima colonia greca, nell’attuale Ischia. E il nome Ichnoussa porta quel marchio, la traccia di una navigazione vasta ed attenta.

Sappiamo che, dopo 150 anni, questa Italia unita ha subordinato e spesso dimenticato il Mezzogiorno e le sue isole; anche nelle loro lontane radici, regno e rotta delle grandi civiltà mediterranee e messaggio forte inviato dall’antichità: un mare greco, fenicio e tirreno, e sardo, entro il quale la cultura nuragica ha detto cose molto importanti e spaziato in relazioni aperte, da Malaga a Populonia, da Portus a Gravisca a Crotone, da Cartagine alla cretese Kommos.

Piuttosto che appassionarmi a nuove minuscole entità nazionali, mi sembra più utile l’impegno per rinnovare la costruzione italiana, farla diventare davvero inclusiva ed espressiva delle sue straordinarie vicende, combattendo i separatismi vari e i nazionalismi anacronistici, portatori di incomunicabilità, divisione e odio, inserendo con pienezza le culture negate e accogliendone di nuove: anch’esse, non meno degli antichi coloni greci e fenici, alla ricerca di terre e vita migliore. Di lavoro. Superando nel contempo lo stesso orizzonte nazionale italiano, limitato di fronte al più affascinante spazio di Europa, definito dai diritti, dai popoli e culturalmente in modo magistrale da Jacques Le Goff; non certo dai nazionalismi ossianici dell’Ottocento.

L’Europa come luogo degli spostamenti per vivere e conoscere meglio, dei nostri lavoratori emigrati. L’Europa delle prime organizzazioni moderne a difesa del lavoro e dei lavoratori, e degli studenti che popolano reciprocamente gli scambi della ricerca europea, annichilita dal governo Berlusconi. C’è necessità di non perdere quei diritti e quella storia che l’emigrazione– magistrale – messo in atto da Marchionne verso il modello americano, tornando alla patria del capitalismo globale, cerca di cancellare.

Si tratta di celebrare nei 150 anni un discorso italiano ed europeo legato alle relazioni, che appare da un altro versante’ rispetto ai nazionalismi e rispetto al sistema americano. Se pure la politica dell’AD Fiat ci indica di fatto la necessità di una nuova e più vasta unità dei lavoratori sino alle linee produttive della Chrysler, è bene non dimenticarsi di preferire, come dice Luciano Canfora nel suo splendido ‘La democrazia’ edito da Laterza, il modello della rivoluzione francese rispetto a quello della rivoluzione americana. Concedendo qualcosa come la rinuncia alla guillotine, ma nulla sui diritti del lavoro e dei popoli. La rotta disegnata attorno a S. Imbenia porta anche a questo.

1 Commento a “S. Imbenia, i nuragici e Marchionne”

  1. joan oliva scrive:

    Ottimo.
    Da Sa Lighera, L’Alguer, Alghero = Terra d’approdo,
    auguri fraterni a te Marcello e a tutti i compagni del Manifesto.
    Fra qualche giorno ti invierò il testo del mio nuovo libretto dedicato alla città sarda-palestinese-greca-…italiana…ecc- (una sorta di ossessione sul toponimo e una riflessione sulle migrazioni di tutti i tempi, dove ho anche ripreso le tue interessanti considerazione su S.Imbenia).
    A presto
    joan

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