Sanità sarda: La pandemia può essere occasione di cambiamento del paradigma

18 Maggio 2020

Hong Kong, Cina – Foto Anthony Wallace, AFP

[Mario Fiumene]

Ospitiamo una riflessione sui possibili cambiamenti che si prospettano in Italia e in Sardegna per il settore della salute pubblica a firma di Mario Fiumene, infermiere, Consulente Sanitario ex Coordinatore Cure Domiciliari e Territoriali della Regione Sardegna.

Per la sanità si prevede una serie di interventi per l’assistenza sul territorio, per gli ospedali, per il personale e per il potenziamento dei contratti di specializzazione. Il dettaglio degli interventi è stato messo a punto in una proposta del ministro della Salute che prevedeva inizialmente un finanziamento complessivo per circa 4 miliardi.

Ecco i punti principali:

  1. Assistenza territoriale.* Per migliorare l’assistenza domiciliare verrà inoltre potenziata l’assistenza infermieristica sul territorio. Nel documento viene calcolato un fabbisogno di 8 unità di personale infermieristico ogni 50.000 abitanti, in linea con quanto previsto per l’USCA (unità speciali di continuità assistenziale, che non sono un Servizio Ospedaliero), costituisce la dotazione necessaria per garantire una copertura del servizio dalle ore 8 alle ore 20, per cinque giorni settimanali, con turnazione del personale infermieristico. A questo si dovrà aggiungere la figura dell’Infermiere di Famiglia che curerà l’assistenza degli over 65 ( il numero potrà variare da un minimo di 500 assistiti) e persone di altre fasce d’età, in accordo con il Medico di Famiglia/Mmg.
  2. Rete ospedaliera.** In considerazione della verifica dei posti letto esistenti e aggiuntivi attivati dalle regioni nella prima fase emergenziale, nel documento del Ministero della Salute si ritiene necessario rendere strutturale un’ulteriore dotazione di 3.625 posti letto di Terapia Intensiva, corrispondente all’incremento del 70% del numero di posti letto di terapia intensiva. Tale incremento determina una dotazione per ciascuna Regione pari a 0,15 pl / 1000 abit.

A questi si aggiunge un ulteriore incremento di 6.036 posti letto di semintensiva

Tutto questo mi porta a fare una riflessione se veramente la pandemia vuole essere occasione di “cambiamento di paradigma”.

Per la persona che si rivolge ai servizi del Distretto Socio Sanitario del proprio Territorio, la porta di entrata al sistema di Cura e presa in carico deve essere unica (P.U.A.).

Attraverso la rete territoriale all’interno della quale sono collocate varie realtà (ultime in ordine di arrivo sono le USCA qui citate), possiamo individuare e intercettare ciò che si cela nel territorio: ad esempio è ormai noto dagli studi fatti che, tantissime persone che da settimane erano malate a casa con situazioni sanitarie che andavano aggravandosi e che rischiavano di travolgere il sistema, solo perché avevano paura di recarsi in ospedale.  Quanto è accaduto in Lombardia in Veneto e nelle altre Regioni deve diventare un caso di studio, un modello da evitare per qualunque sistema sanitario. E non parlo della gestione dell’epidemia, ma dell’organizzazione del sistema e dei presupposti sui quali si regge: l’ospedalo-centrismo, l’iper-specializzazione e la competizione tipica dei sistemi di quasi-mercato, dove l’ideologia del “competere è meglio che cooperare” è funzionale a garantire qualcosa che nulla ha a che vedere con la tutela della salute: il profitto economico (per questo ho qualche remora sulle scelte indicate al punto 2 di questo scritto. Inoltre si deve fare una riflessione su quanto abbiamo vissuto per una mancanza di coordinamento, paradossalmente, proprio tra servizi territoriali di prevenzione e quelli di cura (Dipartimento di Sanità Pubblica e medici di base soprattutto), la macchina organizzativa deve servire a far comunicare queste due anime in maniera efficace e coerente. Questo dovrebbe portarci a riflettere sul tema dell’integrazione del nostro sistema, relativamente alle competenze centrali e periferiche, anche perché siamo entrati in questa emergenza mentre eravamo nel pieno del dibattito per l’autonomia regionale differenziata (credo non ben compresa perché non ben presentata e spiegata).

Organizzare bene l’assistenza sul territorio esprime un’idea di società più equa in termini di accesso ai servizi e di ridistribuzione delle risorse. E’ quindi una scelta politica prima che tecnica. Tuttavia richiede delle competenze specifiche da spendere all’interno di una rete più complessa. Una rete funziona solo se ognuno fa bene il proprio lavoro, pertanto ritengo importante che la medicina territoriale approfondisca e al contempo rafforzi le sue specificità cercando connessioni sempre più strette tra tutti i servizi e le attività territoriali, con ampio ricorso a una rete orizzontale di competenze diverse che dialogano e costruiscono un’organizzazione sanitaria più sensibile alle esigenze della popolazione.

La medicina generale (compresa la pediatrica), l’assistenza infermieristica, la prevenzione, la promozione della salute  la riabilitazione e tutto l’ambito dell’assistenza sociale, senza dimenticare la salute mentale: il campo da rafforzare ed integrare è questo. Non abbiamo nulla di nuovo da inventare, se non ripartire da quanto la Dichiarazione di Alma Ata esplicitava già nel 1978.

In questo quadro vedo necessario che l’ospedale non abbia paura di mettere a disposizione del territorio il proprio sapere, esprimendo linee guida chiare, formazione e consulenza sui casi più complessi. Supportare le cure domiciliari da sempre richiede di entrare davvero nella vita delle persone, delle famiglie e delle comunità, con una visione olistica al problema di salute, fuori da una logica individualistica e bio-riduzionista.

Saranno (sono e dovevano essere già) centrali le politiche volte a garantire diritti (vedasi la proposta di questi giorni del Ministro dell’Agricoltura e di altri, ma non tutti) ad uno dei pilastri nascosti del nostro sistema di welfare: le badanti, le colf e chi in genere (femminile) si occupa dell’arduo lavoro di cura. Sarà necessario rafforzare il livello generale di alfabetizzazione sanitaria (health literacy) nella popolazione e pensare a come raggiungere le comunità più fragili mettendo in campo azioni inedite volte ad agire anche sui determinanti non sanitari della salute, nell’ottica di prevenire il diffondersi di malattie contagiose o croniche o meglio della malattia in quanto tale attraverso figure come il Medico* **e l’Infermiere sentinella.

Le competenze epidemiologiche, dovranno essere recuperate per essere al servizio della comunità, generando saperi ed evidenze situate e geolocalizzate, per promuovere politiche di contrasto a tutte le forme di malattia e povertà, a partire dai quartieri e dalle periferie. Sono molteplici gli aspetti da affrontare, in primis come riuscire a coniugare il bisogno evidente di riformare l’assistenza territoriale in molte parti d’Italia, dove ad esempio i Servizi Infermieristici Domiciliari sono stati dati in appalto e di assistenza domiciliare se ne fa poca e male.

Altro tema annoso è la questione dei medici di medicina generale i medici delle cure primarie devono conseguire una vera e propria specializzazione, perché “la medicina del territorio deve avere pari dignità”. In ogni caso i modelli di riferimento per la medicina territoriale cui mi riferisco sono quelli che si basano su alcuni fermi principi:

a) La territorializzazione: sia in chiave di programmazione del fabbisogno che di dispiegamento dei servizi di base. Servono équipe di operatori per i servizi di base dedicati a territori piccoli (trovo più equilibrato il calibro di 30mila abitanti indicato da varie regioni sulle case della salute rispetto al numero di 50mila, ancor meno se operativo solo 5gg/settimana con 8 Infermieri. L’attività dovrebbe essere su 7 gg/settimana.
b) Le risorse non devono essere uguali per tutti i territori ma “aggiustate” per fattori demografici, socio-economici ed epidemiologici, tenendo conto che dove c’è maggior deprivazione c’è maggior malattia
c) Non si devono scindere i bisogni della persona: il territorio deve essere capace di esprimere una cura, un’attenzione, che tenga conto di tutti i determinanti della salute
d) Il lavoro territoriale deve essere di équipe: la territorializzazione deve servire a fare sintesi in quella frammentazione che esiste a livello più alto, tra salute mentale e salute fisica; tra prevenzione, cura, riabilitazione e palliazione; tra sanitario e sociale.
e) Quindi servono anche strumenti flessibili (come i budget di salute ) capaci di attraversare gli steccati tra i (budget dei) servizi
f) Riformare il modello di finanziamento, introducendo strumenti che valorizzino i risultati in salute (pagare la salute e non la malattia).

Concludo con una domanda: di tutto questo “cambiamento” quanto si realizzerà in Sardegna?

 

Riferimenti*

* -**DPCM Rilancio e Quotidiano Sanità del 10/05/2020

*** RIMSA vedasi sito ISDE italia

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