Saperi medici plurali (2)

1 Luglio 2015
BOLLE DI SAPONE E SANPIETRINI
Giulio Angioni

Studiare come si mantengano ancora modi e mestieri di cura tradizionale è dovere non solo di chi si propone di estirpare le consuetudines non laudabiles e gli errores, che da secoli in Europa sono oggetto della lotta della medicina ufficiale contro l’empiria, l’ignoranza, la magia.

Anche le varie forme di cristianesimo hanno lottato contro concezioni e pratiche mediche tradizionali, specie contro le pratiche coreutiche di guarigione, quali il tarantismo, in Puglia oggi mobilitato in funzione identitaria. Ma questa costruzione dell’identità locale comporta un rovesciamento di prospettiva del tarantismo stesso, sindrome considerata vergognosa dal punto di vista sociale: ma oggi, sull’onda della rivalutazione neo-tradizionalista, si assiste a rappresentazioni dove attrici riproducono il mesto corteo che, nel giorno di S. Paolo, riuniva a Galatina le tarantate per chiedere la grazia. Così per l’àrgia sarda, terapia coreutico-musicale cui si ricorreva per guarire dal morso di un ragno: esperienza angosciosa e dispendiosa, oggi danza e musica sono espressioni gioiose in concerti e in feste di piazza, avvertite come specificità locale identitaria. Se in Sardegna il bisogno di eutanasia non ha prodotto una figura ‘professionale’ come la cosiddetta acabbadora, ha però prodotto la figura dell’acabbadora, cioè la personificazione di un problema sempre e dappertutto sentito e patito. Etnografie spontanee su questa figura sono mosse dal bisogno di credere nella sua esistenza reale, e questo è aspetto importante del fenomeno, anche dal punto di vista della bioetica che si occupi di fine vita, che da noi ha prodotto la personificazione fantastica di un problema sempre e dappertutto sentito e patito, forse per metabolizzare una responsabilità morale, individuale e collettiva come quella del volere porre fine a interminabili sofferenze finali. Il bisogno di un “buon fine vita” in Sardegna ha creato la figura mitica di chi vi provvedeva.

Il lungo osservare vecchi e nuovi percorsi di guarigione, paralleli o intrecciati alla medicina ufficiale, l’interrogarsi sul senso e sull’efficacia delle azioni curative dei guaritori, ha documentato come queste pratiche curative popolari tradizionali riescano a dare senso alla sofferenza attraverso processi di riconoscimento e quindi di cura del male; e che così come non è possibile rinunciare a forme di gestione domestica e familiare della malattia, così non è possibile per molti, non solo nelle nostre campagne in quanto luogo di una probabile maggiore conservatività, non è possibile rinunciare a una gestione comunitaria della malattia, dove il guaritore più che uno specialista è portatore di un sapere e di un agire comuni e condivisi.

Un problema è anche l’efficacia di questi modi tradizionali di prendersi cura del sofferente. Gli antropologi hanno elaborato la nozione di efficacia simbolica, insita nello stesso processo di conferimento di senso alla sofferenza, che sia sacro o profano o entrambi, soprattutto nel rapporto empatico tra malato e guaritore, efficacia spesso carente nel rapporto odierno tra malato e apparato medico.

È anche un dato del nostro senso comune che la guarigione come la malattia siano qualcosa di non confinabile in uno dei due ambiti che diciamo mente e corpo, soma e psiche, in cui siamo soliti scindere il nostro vivere. Si parla volentieri di mali psicosomatici e di effetti placebo e nocebo, mentre trovano operatori e clienti le medicine orientali più olistiche, come lo yoga e lo shiatsu. L’antropologia medica tende a pensare in generale la guarigione non meno della malattia come un insieme complesso di elementi che diciamo biologici o corporei e simbolici o mentali. È nota l’opinione di Claude Lévi-Strauss che l’efficacia simbolica di una terapia, altrimenti inefficace secondo il punto di vista biomedico, è il risultato della proiezione di pensieri, emozioni e malesseri individuali in un quadro mitico di simboli e metafore condivise da una comunità di cultura. Si tratterebbe di una dimensione operativa governata appunto dal gesto rituale e dalla parola mitica, sacra, dove si stabilisce un nesso efficace tra rituale, racconto ed esperienza del malessere, secondo concezioni e processi riconoscibili anche nelle varie forme di psicoterapia occidentale, ridotte troppo però a una precaria dimensione individuale di senso e di cura. Il divano dello psicologo è infatti una metafora di quanto il malessere e la sua cura sono diventati, da eventi collettivi, problema individuale.

La guarigione è simbolica e collettiva, anche senza Lourdes o Padre Pio, secondo un andamento nel quale il guaritore (medico o altro) media nel paziente la definizione di un mondo simbolico interiore fatto anche di “simboli terapeutici”, dove il gesto, la parola, lo strumento, il farmaco, il rito, la comunicazione e i rapporti sociali giocano tutti insieme la loro parte. Il buon terapeuta è sempre stato un buon manipolatore sia dei mezzi materiali sia dei mezzi simbolici della cura. Nel guaritore tradizionale, nel mago, nello stregone, nell’empirico, il ‘popolo’ o il ‘nativo’ ricerca soprattutto un tale tipo di terapeuta, che è sentito carente nell’apparato biomedico istituzionale.

Quando si fa attenzione al rapporto fra operatore terapeutico e paziente nel suo ambiente sociale, ci si accorge di tutti quei “manipolatori dell’invisibile” quali osservatori di corpi, sciamani, divinatori, medium, maghi anche televisivi, che si muovono nei dintorni della terapia egemoni, a distanze più o meno decise dalla biomedicina e dalla taumaturgia religiosa. A parte la loro professionalizzazione anche nel compenso a tariffa, un aspetto che ricorre e s’impone, come nel caso dei guaritori tradizionali, è l’uso del termine e delle modalità del dono. Dono è la capacità di guarire acquisita dal mediatore di guarigione (molto più spesso, anche in Sardegna, guaritrice), dono è la sua prestazione, dono è la sua remunerazione qualunque essa sia. Ancora oggi molti guaritori tradizionali sembrano usare il termine dono in tutti questi sensi, con la tendenza a intendere una zona di scambio sociale dove la gratuità circola come un bene impagabile e non oggetto di scambio mercantile, ma soggetto all’obbligo umano del dare, del ricevere, del contraccambiare, dove il risultato finale e generale è la guarigione. Il dono terapeutico risulta pensato come il risultato di una mutua assunzione di responsabilità della cura, una vera, antica, sperimentata “cassa mutua” in cui tutti più o meno danno, ricevono, contraccambiano e aumentano insieme il capitale terapeutico comune

Molti documenti mostrano che ancora nelle nostre campagne c’è in forma residuale un’efficacia terapeutica del dono come fatto sociale totale, con la sua gratuità, cioè con la grazia in tutta la sua carica di sensi, grazia richiesta data e ricevuta attraverso la mediazione di un qualcosa o un qualcuno, o meglio forse di un tutt’uno, comunque pensato, di cui specialmente la salute individuale è dono o risultato, in fondo gratuito, sebbene in qualche modo meritato, mediato e impetrato, come per altro e solo in parte testimoniano dappertutto nel mondo cattolico le collezioni esposte di ex-voto per grazia ricevuta, nei santuari come anche oggi a volte nell’“ambulatorio” del guaritore o del mago, e molto meno nello studio del medico. I molti mediatori e la folla di fruitori del guarire tradizionale e/o ‘alternativo’ ribadiscono che il rapporto terapeutico più soddisfacente è un evento collettivo, un processo interumano, guidato al meglio dal gratuito, non riservata solo ai luoghi e ai modi impersonali della sanità ufficiale, tanto più se orientata dal mercato, incapace talvolta del dono della parola e del gesto curativamente efficaci.

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