Sardegna tra le basi militari e il colonialismo. L’abbraccio degli ulivastri
9 Luglio 2019[Raul Zibechi]
Una enorme portaerei per controllare il Mediterraneo e il Nord Africa, con decine di basi della Nato. Una piattaforma per produrre e esportare energia al continente. Un progetto di industrializzazione monco che ha affossato l’economia di sopravvivenza dei pastori. La Sardegna è un’isola colonizzata, annessa all’Italia circa un secolo e mezzo fa, che resiste e si guarda allo specchio degli indipendentisti catalani.
“Ulivastri” esclama Alessia mentre l’auto si inerpica lentamente sul monte di San Sisinnio, coronato da un eremo dove ogni anno si celebra la festa patronale la prima domenica di Agosto, a poca distanza da Villacidro, un grande paese nella pianura a un’ora da Cagliari. I giganteschi e millenari ulivi, chiamati “ulivastri” dai sardi, sono una delle caratteristiche identitarie di quest’isola colpita dalla piaga delle basi militari della NATO che appaiono in zone insospettabili, vicino alle spiagge o dentro le città.
Inevitabile informarsi su questo strano vocabolo. Si tratta di grandi ulivi silvestri che possono raggiungere e superare i 500 anni di vita, con tronchi grossi e ritorti che superano i cinque metri di diametro. Sulla cima, una chiesa del 1600 che compete in austerità e bellezza con il monte di ulivi che la circonda. Ci ripariamo dal sole impenitente sotto un enorme ulivastro, i cui rami offrono riparo per quasi venti metri di diametro ospitando un circolo di mezzo centinaio di persone.
ESPORTARE ENERGIA. Sin dall’arrivo in Sardegna i membri dei comitati sardi che ci ospitano, denunciano la militarizzazione dell’isola e ripetono una volta e un’altra ancora concetti che ci suonano molto latinoamericani. “Siamo un’isola colonizzata”. In effetti, l’isola fu provincia dell’impero romano che mise fine alla civiltà nuragica, il cui splendore viene svelato dalle migliaia di torri-fortezza chiamate in sardo nuraghi.
Successivamente fu occupata dalla corona di Aragona che divenne successivamente il regno di Castiglia, per passare alla casa Savoia con il Trattato di Utrecht. Solo nel 1861 è stata annessa all’Italia, appena un secolo e mezzo fa. Perciò buona parte dei sardi non si considera italiana, conserva la propria lingua e i propri costumi, e sente il governo di Roma straniero e, naturalmente, lontano.
Molte altre parole ci riportano al continente del sud, come l’enfasi sul concetto di comunità. Nel febbraio scorso, i pastori hanno lanciato una protesta durissima per l’aumento del prezzo del latte ovino che producono. Il costo di produzione è di circa un euro al litro, ma ne recuperano appena la metà, cifra che sono riusciti ad aumentare del 40 per cento circa dopo quasi un mese di blocchi stradali, trascorsi a rovesciare il latte dei grandi produttori e a fronteggiare la repressione. Comunità è quella che sostiene la sopravvivenza dei pastori, transumanti per mesi in cerca di pasture in questa terra disidratata.
Le comunità sarde subiscono lo sviluppo e la presunta modernizzazione. A venti chilometri scarsi da Cagliari, girando per spiagge dalle acque diafane e dalle sabbie luminose, si erge imponente la raffineria Saras, a pochi metri da Sarroch, un paese di poco più di cinquemila anime. Si tratta della seconda raffineria d’Europa e della più grande del Mediterraneo, lavora 15 milioni di tonnellate di petrolio all’anno.
Il suo proprietario, Angelo Moratti, era un tipo polemico. Imprenditore aggressivo e opportunista, presidente dell’Inter di Milano, padrone dello storico Corriere della Sera assieme al capo della Fiat, Gianni Agnelli, nel 1962 fondò la petrolchimica in Sardegna, considerandola un sito strategico per la commercializzazione nel continente. Forse perché previde che i pochi abitanti dell’isola (1,6 milioni) avrebbero potuto subire le conseguenze ambientali e sanitarie delle sue attività con ripercussioni politiche minori rispetto a qualunque altra area industriale italiana. Errore di calcolo.
Nel maggio del 2013 la prestigiosa rivista scientifica Mutagénesis* dell’Università di Oxford, ha pubblicato un rapporto stroncante che sostiene che le emissioni contaminanti prodotte dalla raffineria (che cominciò a funzionare poco più di mezzo secolo fa, nel 1966), hanno provocato “Significativi aumenti dei danni e alterazioni del DNA rispetto al campione di confronto estratto dalle aree rurali”. Si fa riferimento ai 75 bambini e bambine della scuola primaria e secondaria di Sarroch, che rappresentavano un campione della ricerca messo a confronto con campioni provenienti da altrettanti bambini delle aree rurali.
La stessa area industriale ospita un impianto con il più grande ciclo di gassificazione combinato al mondo, che impiega i rifiuti di raffinazione per la generazione di energia. Produce una miscela di inquinanti atmosferici, tra cui benzene, etilbenzene, formaldeide e toluene, nonché metalli pesanti come cadmio, cromo, piombo e composti di nichel. I ricercatori sostengono che i risultati sono in linea con quelli ottenuti nella centrale elettrica di Taichung a Taiwan e nel centro petrolchimico di Pancevo in Serbia.
L’articolo di Mutagénesis riporta un “aumento dei livelli di stress ossidativo”, che implica una rottura dell’equilibrio in un organismo vivente tra produzione ed eliminazione cellulare. Chi subisce questo tipo di danno al DNA, avrà per tutta la vita più probabilità di ammalarsi di cancro ai polmoni e di leucemia, il che è confermato nel caso di Sarroch con una deviazione statisticamente significativa dai valori attesi.
A Sarroch c’è il 30% in più di casi di leucemia rispetto al resto dell’isola. I membri dei comitati sardi affermano che questa è una delle conseguenze della “monocultura energetica” alla quale è stata condannata la Sardegna, che ha una potenza energetica installata tre volte e mezzo superiore rispetto a quella necessaria.
Militarizzazione. “Il processo di spoliazione della Sardegna cominciò sistematicamente con i Savoia alla fine del 1800” si può leggere in un documento del Coordinamento dei Comitati Sardi, che raggruppa circa 60 gruppi: contro l’occupazione militare, in difesa dell’ambiente, contro la tecnologia 5-G, per la salute e la biodiversità, in difesa delle periferie urbane e contro l’estrattivismo. La principale differenza rispetto ad altri gruppi di attivisti del sud riguarda la lotta per l’indipendenza promossa da alcuni comitati.
In un lungo viaggio lungo la costa occidentale, in cui le insenature si intercalano con ripide montagne, ci siamo imbattuti in un’enorme recinzione che corrisponde alla base militare di Teulada, la seconda nell’isola per dimensioni. Anche se alla fine della seconda guerra mondiale gli alleati decisero che la Sardegna sarebbe rimasta un’isola neutrale, ben presto la NATO decise di trasformarla in una gigantesca base militare e a metà degli anni 1950, con la scusa della guerra fredda, cominciò la realizzazione di di poligoni di esercitazione e tiro.
Il poligono di Teulada ha una superficie di 7.500 ettari e occupa 30 chilometri di costa, dove i Marines si esercitano con sbarchi e bombardamenti. In quattro anni, tra il 2009 e il 2013, solamente in questo poligono sono stati esplosi 24 mila ordigni di artiglieria pesante, missili e razzi. A questa opprimente attività militare (quasi 20 bombe al giorno in media) si devono aggiungere le tonnellate di rifiuti lasciati dalle esplosioni e dalle esercitazioni.
Il poligono di Quirra, il più grande della Sardegna, supera i 13 mila ettari e viene utilizzato principalmente dall’aviazione. L’isola è costellata di installazioni militari di ogni tipo, tra cui una base per i sottomarini atomici nel nord, stazioni radar e poligoni dove le tre forze possono esercitarsi all’aria aperta. In sintesi, uno scenario di grande valore per l’esercito italiano e statunitense, ove sperimentano guerre che scateneranno poi contro altri popoli.
L’insieme delle installazioni militari occupa non meno di 35 mila ettari: quasi il 70 per cento della totalità delle installazioni militari italiane è concentrato in Sardegna. L’occupazione di vaste aree intorpidisce l’attività economica dei contadini e dei pastori, come conseguenza l’80% del cibo consumato è importato. L’altro aspetto dell’occupazione militare è l’emigrazione, poiché le basi non occupano manodopera locale e l’industria non ha più fiato.
Un valido esempio della militarizzazione dell’isola è la fabbrica di bombe, mimetizzata tra gli uliveti nel sud dell’isola. Hanno scelto il posto giusto, il piccolo comune di Domusnovas, dove metà dei giovani non ha un lavoro. La fabbrica è di proprietà della tedesca Rheinmetall, la principale compagnia di armi della Germania che divenne famosa sotto il nazismo per i suoi fucili Mauser.
Nel dicembre del 2017 un’indagine del New York Times ha rivelato che l’Arabia Saudita utilizza le bombe prodotte in Sardegna per attaccare la popolazione dello Yemen. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha vietato la vendita di armi alla monarchia saudita, ma quelle esportate dall’Italia, cioè dalla Sardegna, non sono state colpite dal divieto.
Le proteste contro la fabbrica sono continue e promosse da organizzazioni pacifiste e antimilitariste come il comitato No Basi. Il giorno in cui, accompagnati da Edoardo e Rosalba, abbiamo attraversato i boschi che la circondano, per raggiungere una collina dalla quale poter vedere gli stabilimenti, siamo stati avvicinati da due auto di guardie private pesantemente armate. Non hanno attraversato il recinto di filo spinato, ma hanno dato sufficiente mostra fisica e verbale per non passare inosservati.
COMITATI SARDI. Sotto l’enorme ulivastro che corona San Sisinnio, ci disponiamo in un cerchio di oltre una cinquantina di persone. Tutti rappresentano comitati di base provenienti da diversi angoli della Sardegna. Alessia apre l’incontro e libera la parola che inizia a circolare a tutto tondo. Antonio, Claudio, Rosalba e Edoardo, incoraggiano la partecipazione che rapidamente cresce.
Gli argomenti di discussione sono l’occupazione militare, la repressione e l’autodeterminazione dell’isola. Un doppio sentimento domina gli attivisti: l’oppressione storica dovuta all’occupazione e la distruzione delle economie locali. Gli sguardi si posano spesso su Bainzu Piliu, 84 anni, il più noto indipendentista sardo, un uomo magro e ritto che nel 1971 fondò il Fronte per l’indipendenza della Sardegna. Laureato in farmacia, è stato sindaco e perseguitato come “cospiratore” per la sua difesa dell’indipendenza.
Qualcuno cita la “subalternità del territorio e delle amministrazioni locali” e l’immaginazione vola verso il sardo più conosciuto al mondo: Antonio Gramsci. Il suo concetto di “subalternità”, fondamento delle correnti teoriche anti o decoloniali, non sarebbe stato formulato se non fosse nato in territori colonizzati. Quando aveva quindici anni l’isola fu scossa dalle lotte operaie e dalle rivolte contadine, rimase colpito dal grande movimento “sardista” che portò nella sua valigia e nel suo cuore quando emigrò nella Torino proletaria.
Il dibattito fa imbastire idee. L’isola è passata da una “monocultura mineraria”, andata in crisi negli anni ’60, ad una sorta di “monocultura militare”, anche se ora la stella è il turismo. “Le basi”, dice una sociologa sarda di nome Aide, “sono invisibili, ma negli ultimi anni è cominciato un processo di lotta contro la presenza militare”. Laura rappresenta il comitato No Metano, e afferma che “la produzione energetica ha trasformato l’isola in un tubo di scappamento il cui motore sta a Milano”.
La critica al neoliberismo è un altro ponte con l’America Latina. Isabella lavora per “telefono rosso” creato con l’Unione Sindacale di Base, che raccoglie le denuncie degli abusi sul lavoro. “I più sfruttati sono i lavoratori temporanei che arrivano a lavorare 18 ore al giorno per stipendi di soli 450 euro al mese. Alcuni lavorano gratis perché sono in prova, specialmente gli immigrati che non hanno accesso al sindacato”. Quindi mette in relazione la paura degli operai con l’eredità coloniale e il supersfruttamento.
Le due principali richieste del movimento sardo ruotano intorno alla “moratoria sulle industrie produttrici di energia” e “la chiusura delle basi militari e la restituzione delle delle terre alle comunità”, per compensare i danni all’ambiente e il blocco delle economie agricole locali. Sanno che sono obiettivi lontani quanto lo è l’indipendenza di un’isola sotto il controllo della NATO.
Si ispirano in qualche modo alla rivolta di Pratobello, dalla quale è trascorso mezzo secolo. Nel 1969, sulle mura del paese, le autorità affissero dei manifesti con l’invito rivolto ai pastori di sgomberare il bestiame dai pascoli di Pratobello, perché l’area sarebbe stata trasformata in un campo di tiro dall’esercito italiano. Il 9 giugno, i 3.500 abitanti di Orgosolo iniziarono la mobilitazione occupando le terre.
Donne e bambini affrontarono i soldati, faccia a faccia, pacificamente, con notevole fermezza. La mobilitazione divenne una rivolta popolare pacifica guidata da un’assemblea popolare permanente, con la partecipazione di migliaia di persone provenienti dai paesi della regione. Dopo diverse settimane, l’esercito si ritirò e i pastori rioccuparono le terre comunali con il loro bestiame. Fu il 68 sardo.
“L’estrattivismo è un’economia d’assalto basata sulla devastazione e il saccheggio, il cui unico scopo è lo sfruttamento del territorio senza limiti, che, in nome del profitto, distrugge l’ecosistema e gli esseri umani che lo abitano”, afferma un documento del Coordinamento dei Comitati Sardi, scritto con la lucidità di coloro che sopportano le disgrazie. Trascorse le ore, l’ombra dell’ulivastro continua a proteggerci dal sole, con i suoi rami infiniti che si abbassano fino ad accarezzare la terra. Di sotto si respira serenità e calma, quella calma necessaria per affrontare le forti pendenze della vita, come la militarizzazione e il colonialismo.
- Mutagénesis, Volume 28, pp. 315-321 (2013)
Raul Zibechi è ricercatore, scrittore e giornalista urugayano, redattore della rivista “Brecha” e Doctor honoris causa presso l’Universidad Mayor de San Andrès (La Paz, Bolivia). Autore di numerose pubblicazioni tradotte in tutto il mondo sulle dinamiche dei movimenti sociali sudamericani.
Ospite in Sardegna del Coordinamneto dei Comitati Sardi tra l’11 e il 21 giugno, periodo durante il quale ha incontrato movimenti, associazioni, e organizzazioni di lotta e resistenza sardi ad Iglesias, Cagliari, Villacidro, Sassari, Olzai, Nuoro e Siniscola.
Cerdeña entre las bases y militares y el colonialismo
El abrazo de los ulivastri
Un enorme portaaviones para controlar el Mediterráneo y el norte de África, con decenas de bases de la OTAN. Una plataforma para producir y exportar energía al continente. Un proyecto de industrialización trunco que consiguió torpedear la economía de sobrevivencia de los pastores. Cerdeña es una isla colonizada, anexada a Italia hacia siglo y medio, que resiste y se mira en el espejo de los independentistas catalanes.
[Raúl Zibechi]
En Cagliari
“Ulivastri”, exclama Alessia mientras el coche trepa lentamente el monte de San Sisinnio, coronado por una ermita donde cada año se celebran las fiestas patronales el primer domingo de agosto, a poca distancia de Villacidro, una villa grande en la llanura a una hora de Cagliari. Los gigantescos y milenarios olivos, mentados como “ulivastri” por los sardos, son una de las señas de identidad de esta isla invadida por una plaga de bases militares de la OTAN que aparecen en sitios insospechados, cerca de las playas o en medio de las ciudades.
Inevitable preguntar por un vocablo extraño. Se trata de grandes olivos silvestres que pueden alcanzar los 500 años, o más, con troncos retorcidos y gordos que superan los cinco metros de diámetro. En la cima, una iglesia del 1600 que compite en austeridad y belleza con el monte de olivos que la rodea. Nos refugiamos del sol impenitente debajo de un enorme ulivastro, cuyas ramas ofrecen sombra casi veinte metros a la redonda, hospedando una rueda de medio centenar de personas.
EXPORTAR ENERGÍA. Desde la llegada a Cagliari los miembros de los comités sardos que nos hospedan, denuncian la militarización de la isla y repiten una y otra vez conceptos que nos suenan muy latinoamericanos: “Somos una isla colonizada”. En efecto, la isla fue provincia del imperio de Roma que puso fin a la civilización nurágica, cuyo esplendor lo revelan los miles de torres-fortalezas llamadas nuraghi en sardo.
Luego fue ocupada por la corona de Aragón que devino más tarde en reino de Castilla, para pasar a la casa Saboya con el Tratador de Utrecht. Recién se incorporó a Italia en 1861, apenas un siglo y medio atrás. Por eso buena parte de los sardos no se consideran italianos, conservan su lengua y sus costumbres, y sienten al gobierno de Roma como algo extraño y, naturalmente, lejano.
Muchos otros vocablos que nos remiten al continente del sur, como el énfasis en el concepto de comunidad. En febrero pasado, los pastores lanzaron una huelga durísima por el aumento del precio de la leche ovina que producen. El costo se sitúa en un euro el litro, pero recibían apenas la mitad, cifra que consiguieron aumentar en un 40 por ciento luego de casi un mes cortando rutas, volcando la leche de los grandes productores y enfrentando la represión. Comunidad es la que sostiene la sobrevivencia de los pastores, trashumantes durante meses en busca de pasturas en esta tierra deshidratada.
Las comunidades sardas sufren el desarrollismo y la supuesta modernización. A escasos veinte kilómetros de Cagliari, rodeando playas de aguas diáfanas y arenas luminosas, se yergue imponente la refinería Saras, a metros de Sarroch, un pueblo de poco más de cinco mil almas. Se trata de la segunda refinería de Europa y la mayor del Mediterráneo, que refina 15 millones de toneladas al año de petroleo.
Su propietario, Angelo Moratti, era un tipo polémico. Emprendedor agresivo y oportunista, fue presidente del Inter de Milán, dueño del histórico Corriere della Sera junto al capo de Fiat, Gianni Agnelli, y en 1962 fundó la petroquímica en Cerdeña, por considerarla un sitio estratégico para la comercialización en el continente. Quizá porque, además, previó que la baja población de la isla (1,6 millones) podría sufrir las consecuencias ambientales y sanitarias de su emprendimiento con menores consecuencias políticas que si estuviera en alguna zona industrial de Italia. Error de cálculo.
En mayo de 2013 la prestigiosa revista científica Mutagénesis* de la Universidad de Oxford, publicó un informe demoledor que sostiene que el aire contaminado que emite la refinería (que comenzó a funcionar hace más de medio siglo, en 1966), ha provocado “incrementos significativos en daños y alteraciones del ADN con respecto a la muestra de comparación extraída de las zonas rurales”. Se refiera a los 75 niños y niñas de la escuela primaria y la secundaria de Sarroch, que constituyó a muestra de la investigación, y fue cotejada con muestras de otros tantos niños de áreas rurales.
El polígono industrial cuenta, además, con el mayor ciclo combinado de gasificación del mundo, que procesa residuos pesados de refinación para la generación de energía. Produce una mezcla de contaminantes del aire, que incluyen benceno, etilbenceno, formaldehído y tolueno, además de metales pesados como cadmio, cromo, plomo y compuestos de níquel. Los investigadores sostienen que los resultados están en línea con los obtenidos en la central térmica de Taichung en Taiwán y el polo petroquímico de Pancevo en Serbia.
El artículo de Mutagénesis informa de un “incremento en los niveles de estrés oxidativo”, lo que supone una ruptura en el equilibrio en un organismo vivo entre la producción y la eliminación. Quienes sufren ese tipo de daños en su ADN, tendrán a lo largo de sus vidas mayores probabilidades de enfermarse de cáncer de pulmón y leucemia, lo que se confirma en el caso de Sarroch con una desviación estadísticamente significativa de los valores esperados.
En Sarroch hay 30 por ciento más casos de leucemia que en el resto de la isla. Los miembros de los comités sardos sostienen que se trata de una de las consecuencias del “monocultivo energético”, al que ha sido condenada Cerdeña, tiene instalado una potencia de energía tres veces y media más de la requerida.
MILITARIZACIÓN. “El proceso de expoliación de Cerdeña comenzó de manera sistemática con los Saboya a fines del 1800”, puede leerse en un documento de la Coordinación de Comités Sardos, que agrupa alrededor de 60 colectivos: contra la ocupación militar, en defensa del medio ambiente, contra la tecnología 5-G, por la salud y la biodiversidad, en defensa de la ciudad y contra el extractivismo. La principal diferencia con los grupos de activistas del sur, gira en torno a la defensa del independentismo que promueven algunos comités.
En un largo recorrido por la costa occidental, intercalando calas con montañas abruptas, topamos con una enorme valla que corresponde al polígono militar de Teulada, la segunda instalación militar por su tamaño en la isla. Aunque al finalizar la segunda guerra los aliados acordaron que Cerdeña sería una isla neutral, pronto la OTAN decidió convertirla en una gigantesca base militar y a mediados de la década de 1950 se comenzaron a instalar polígonos de tiro y de maniobras con la excusa de la guerra fría.
Teulada tiene una superficie de 7.500 hectáreas y ocupa 30 kilómetros del litoral, donde los marines ensayan desembarcos y bombardeos. En cuatro años, entre 2009 y 2013, sólo en ese polígono estallaron 24 mil bombas de artillería pesada, misiles y cohetes. A esa abrumadora actividad militar (casi 20 bombas diarias en promedio) deben sumarse las toneladas de residuos que dejan las explosiones y las maniobras.
El polígono de Quirra, el más extenso de Cerdeña, supera la 13 mil hectáreas y es usado preferentemente por la fuerza aérea. La isla está salpicada por instalaciones militares de todo tipo, incluyendo una base para submarinos atómicos en el norte, estaciones de radares y los polígonos donde las tres fuerzas pueden realizar prácticas a cielo abierto. En suma, un escenario muy valioso para los militares italianos y de los Estados Unidos, que ensayan guerras que luego despliegan contra otros pueblos.
El conjunto de instalaciones militares ocupan nada menos que 35 mil hectáreas: casi el 70 por ciento de la totalidad de instalaciones del ejército italiano están concentradas en Cerdeña. La ocupación de vastas áreas entorpece la actividad económica de campesinos y pastores, lo que ha llevado a que el 80 por ciento de los alimentos que se consumen sean importados. La otra cara de la ocupación militar es la emigración, ya que las bases no ocupan mano de obra local y la industria no tiene fuelle.
Una buena muestra de la militarización de la isla es la fábrica de bombas, camuflada entre olivares en el sur de la isla. Eligieron el lugar adecuado, el pequeño municipio de Domusnovas, donde la mitad de los jóvenes no tiene trabajo. La fábrica es propiedad de la alemana Rheinmetall, la principal empresa armamentística de Alemania que se hizo famosa bajo el nazismo por sus fusiles Mauser.
En diciembre de 2017 una investigación de The New York Times denunció que Arabia Saudí utiliza las bombas que se fabrican en Cerdeña para atacar a la población de Yemen. La canciller alemana Angela Merkel prohibió la venta de armas a la monarquía saudí, pero las que se exportan desde Italia, o sea Cerdeña, no son alcanzadas por la prohibición.
Las protestas contra la empresa son habituales y promovidos por organizaciones pacifistas y antimilitaristas como el comité No Bases. El día que caminamos por los bosques que la rodean, para alcanzar una colina desde la que se divisa la fábrica, acompañados por Edoardo y Rosalba, se nos acercaron dos coches de guardias privados fuertemente armados. No cruzaron la valla de alambre pero hicieron el suficiente despliegue, físico y verbal, como para no pasar inadvertidos.
COMITÉS SARDOS. Debajo del enorme ulivastro que corona San Sisinnio, nos vamos acomodando en una rueda que supera el medio centenar. Todos representan comités de base de diversos rincones de Cerdeña. Alessia abre la reunión y suelta la palabra que empieza circular por la ronda. Antonio, Claudio, Rosalba yEdoardo, animan la participación que pronto se acelera.
Los temas a debate son la ocupación militar, la represión y la autodeterminación de la isla. Un doble sentimiento domina a los activistas: la opresión histórica que supone la ocupación y la destrucción de las economías locales. Las miradas se posan a menudo en Bainzu Piliu, 84 años, el más conocido independentista sardo, un hombre delgado y erguido que en 1971 fundó el Frente por la Independencia de Cerdeña. Se graduó en farmacia, fue alcalde y resultó procesado como “conspirador” por su defensa de la independencia.
Alguien menciona la “subalternidad del territorio y de las administraciones locales”, y la imaginación vuela hacia el sardo más reconocido del mundo: Antonio Gramsci. Su concepto de “subalternidad”, fundante de las corrientes teóricas anti o de-coloniales, no habría sido formulado si no hubiera nacido en territorios colonizados. Cuando tenía quince años la isla fue sacudida por luchas obreras y revueltas campesinas, y fue impactado por el amplio movimiento “sardista” que llevó en su maleta y en su corazón cuando emigró al Turín proletario.
El debate va hilvanando ideas. La isla pasó del “monocultivo minero”, que entró en crisis en la década de 1960, a una suerte de “monocultivo militar”, pero ahora la estrella es el turismo. Las bases, dice una socióloga sarda de nombre Aide, “son invisibles, pero en los últimos años comenzó un proceso de luchas contra la presencia militar”. Laura integra el comité No Metano, y asegura que la “metanización convirtió a la isla en un caño de escape de un motor que está en Milán”.
La crítica al neoliberalismo es otro puente con América Latina. Isabella trabaja en un “teléfono rojo” creado con la Unión Sindical de Base, que recibe denuncias de abusos laborales. “Las más explotadas son las trabajadoras temporarias que llegan a trabajar 18 horas diarias por salarios de apenas 450 euros. Algunas trabajan gratis porque están a prueba, sobre todo inmigrantes que no acceden al sindicato”. Luego relaciona el temor de las trabajadoras con la herencia colonial y la superexplotación.
Las dos demandas principales del movimiento sardo giran en torno a “la moratoria de las industrias productoras de energía” y “la clausura de las bases militares y la restitución de tierras a las comunidades”, para compensar la agresión al medio ambiente y el bloqueo de las economías locales campesinas. Saben que son objetivos tan lejanos como la independencia de una isla sometida al control de la OTAN.
De algún modo, se inspiran en la revuelta de Pratobello, de la que su cumple medio siglo. En 1969 en las paredes del pueblo las autoridades colocaron bandos “invitando” a los pastores a desalojar el ganado en la zona de pastoreo de Pratobello, porque la zona sería utilizada como polígono de tiro por el ejército italiano. El 9 de junio, los 3.500 pobladores de Orgosolo comenzaron la movilización ocupando el campo.
Las mujeres y los niños encararon a los soldados, cara a cara, de forma pacífica, con notable firmeza. La movilización se convirtió en un levantamiento popular pacífico dirigido por una asamblea popular permanente, con la participación de miles de personas de los pueblos de la región. Luego de varias semanas, el ejército se retiró y los pastores volvieron a llevar su ganado a las tierras comunales. Fue el 68 sardo.
“El extractivismo es una economía de asalto basada en la devastación y el saqueo, cuyo único propósito es explotar sin límites el territorio, destruyendo el ecosistema y a los seres humanos que lo habitan, en nombre de la ganancia”, reza un documento de la coordinación de los comités sardos, escrito con la lucidez de quienes soportan los infortunios. Pasadas las horas, la sombra dell’ulivastro sigue protegiéndonos del sol, con sus interminables ramas que van cayendo hasta acariciar la tierra. Debajo se respira serenidad y sosiego, esa calma necesaria para encarar los repechos de la vida, como la militarización y el colonialismo.
* Mutagénesis, Volume 28, pp. 315-321 (2013).).