Sardi Plurales

1 Gennaio 2010

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Alfonso Stiglitz

Alla fine di un anno che ha visto crescere i segni del razzismo e della xenofobia in tutta l’Europa mi sembra utile proporre alcune brevi riflessioni sul nostro essere sardi in un’isola, oggi, in forte crisi di identità. Riflessioni che nascono all’interno di un percorso di ricerca sul meticciato nella Sardegna antica.
Tutti siamo venuti da altrove, tutti siamo arrivati qui, prima o poi, nella nostra isola. Tutti ci siamo inseriti e mescolati con chi è venuto prima di noi: non esistono “autoctoni di immacolata concezione”, come giustamente ha osservato l’antropologo francese Marcel Detienne, nel suo libro sull’autoctonia. Siamo tutti “autoctoni venuti da fuori”, migranti, che è poi l’altra faccia del clandestino. Sempre Detienne ha fatto notare come il termine “autoctono”, in realtà, non significa “nato dalla terra stessa”, ma, più precisamente “che possiede sempre la stessa terra”.
Detto in altre parole i Sardi erano, e sono, quelli che stanno in Sardegna, Sardi per la terra non per il sangue. E questo è il confine chiaro e manifesto con il razzismo. Di questo si discute anche a livello europeo, italiano e, perché no, sardo nel momento in cui si pone il diritto di cittadinanza.
Perché un archeologo si occupa di questo, al di là dell’impegno civile che ogni persona ha?
Nella consapevolezza generale, anche e soprattutto qui da noi, il meticciato è visto come un problema moderno, mentre nell’antichità la purezza culturale era lo strumento dello scontro di civiltà. Per cui la storia della nostra isola era (è) raccontata come un susseguirsi di invasioni, massacri, deportazioni da parte dell’invasore di turno; i Sardi nobili, valorosi e guerrieri ma inevitabilmente sconfitti, ovvero il miraggio della “costante resistenziale sarda” che attraversa le nostre riflessioni. Una immagine che non è imposta dall’alto ma è inglobata in noi, come mostrano le immagini proposte in continuazione, come quella della guida del Touring Club Italiano, scritta da autori sardi: “Nonostante il succedersi di invasioni di popoli stranieri, l’isola si è mantenuta largamente immune da contatti e influenze esterne […] Fauna, flora, tradizioni, linguaggio: arcaismo dell’ambiente naturale e arcaismo di un prodotto degli uomini, fatto per comunicare tra gli uomini”. Oppure quella di Antonio Marras, stilista, nell’ultimo numero di Alias “La nostra è stata terra di conquista, di passaggio e siamo stati sempre pronti a ricevere la corda di chi arrivava per legare la sua nave alla bitta”.
L’antichità, come l’epoca moderna, è stata in realtà un insieme di incontri di Culture, anche violenti, ma noi siamo questo. La nostra stessa lingua, quella sarda è una lingua meticcia. Noi Sardi parliamo una lingua originale, e usando la nostra lingua parliamo in tante lingue, nuragico, fenicio, latino, catalano, spagnolo, italiano.
E allora, chi erano, chi sono i Sardi?
Il termine “sardi” indica già in origine una realtà meticcia, di migranti e di autoctoni venuti da fuori. Lo racconta la storia di Sardo, eroe che viene dalla Libia, Sardo figlio di Maceride, il Melqart di Tiro, la città fenicia per eccellenza. Guida i Libici in Sardegna a stabilirsi con gli abitanti della Sardegna. Da qui inizia la storia dei Sardi, i meticci di Sardegna, dall’incontro tra tutto quello che c’è stato prima e quello che viene dopo, un processo continuo. È qui che nasce questo nome che ci accompagna da allora, figlio di tutte le straordinarie esperienze vissute dalla nostra isola fino a oggi.
Un periodo nel quale sono molteplici le identità, non divise, ma condivise. Ce lo racconta, ad esempio, la storia di Urseti di Macomer che nel primo secolo della nostra era seppellisce il marito Nispeni, dedicandogli un affettuoso ricordo in latino, lei che era di origine nuragica come lui, chiamandolo coniugi benemerenti, e affidandolo, nel momento supremo, agli Dei Mani, le divinità romane che accompagnano i defunti. Questa struggente testimonianza è il segno della presa di distanza netta dalla visione marcatamente dualista della Sardegna: quella che vedrebbe contrapposte una Romània civilizzata, alfabetizzata, di pianura e una Barbària analfabeta, resistente e montanara; l’un contro l’altra armate, fino alla presa di potere della superiore civiltà romana, come gli antichi autori coloniali ci hanno tramandato.
Uno scontro di civiltà nel quale a soccombere furono quei “Sardi”, ovviamente pelliti, barbari (anzi barbaricini), che ovviamente abitavano in caverne e non seminavano le terre seminabili, che ovviamente depredavano gli altri (la mistica delle bardane) e che inevitabilmente vivevano “senza pensieri e travagli, contenti dei cibi semplici”, beati loro. È lo strumentario del bravo etnologo colonialista con i suoi stereotipi che abbiamo acquisito e scambiato per le nostre virtù.
In realtà quello sardo è un popolo meticcio, fatto di comunità dinamiche che, sebbene provate anche dai lunghi anni della repressione violenta, partecipano attivamente ai nuovi tempi senza rinunciare alle proprie affiliazioni, senza rinchiudersi in “riserve indiane” resistenti. Sono in sostanza i portatori di una molteplicità di identità che è poi la Sardità.
Ce lo racconta anche la storia di un cittadino romano di Sedilo, Quintus Volusius Nercau che con i suoi tre nomi di origine latina e nuragica esemplifica la complessità dell’identità di questa comunità sarda di età romana. Così come Cariti di Borore che dà il nome Valerius al figlio, Tamucar, sardo di origine libica da Samugheo, che dà al figlio un nome romano, Senecio, o il caso inverso di P. Manlius di Austis che al figlio dà il nome Nercaus.
E allora a cosa serve questa ricerca? Serve a dare un volto a quelle donne e uomini, certamente Sardi, qualunque fosse la loro provenienza originaria, sicuramente non barbari, portatori di un reticolo di identità culturali, come i Sardi attuali. Ognuno dotato di quella che Amartya Sen ha chiamato: la “natura plurale delle nostre identità” che si esprime con diversi codici di comunicazione, compreso l’affidarsi agli Dei mani come fa Urseti di Macomer quando perde il marito.
Una riflessione finale ci può venire da alcune istruzioni per l’uso contenute in un “dialogo a una sola voce” con il quale Marcel Detienne, ancora lui, fa iniziare il suo libro.
“Dunque, Lei è …? Che cosa, per l’esattezza? Indigeno, nativo, aborigeno – le cui orecchie esercitate fin dall’Australia sentono crescere un albero -, oppure autoctono? Che a volte suona greco, persino troppo greco per i miei gusti, con una sorta di enfasi sul fatto di essere ‘nato dalla terra stessa’, un Auto-Stesso per grecisti di altri tempi. Dunque, Lei è…? E come le è capitato? Un bel mattino? Con il cielo azzurro? Oh! Dalla nascita? Perbacco!”.

Letture proposte nel testo:
M. Detienne, Essere autoctoni, Milano, Sansoni, 2004.
Touring Club Italiano, Sardegna, Milano, 2005.
L. Campo, Noi sardi siamo naufraghi in terra, Intervista con Antonio Marras, Alias, n. 51, 24 dicembre 2009, p. 13.
A. Sen, Identità e violenza, Roma-Bari, Laterza, 2006.

2 Commenti a “Sardi Plurales”

  1. Alfonso Stiglitz scrive:

    Errata corrige
    Un collega mi ha fatto notare un lapsus nel quale sono incorso: in realtà è il marito Urseti che affida agli Dei Mani la moglie Nispeni.
    A ognuno il proprio nome.
    Alfonso Stiglitz

  2. Joan Oliva scrive:

    Grazie Alfonso. Buon anno.

    “Ma di chi è l’approdo, se non di chi va per mare?”, si chiedeva.
    Riflettendo su questa scoperta, pensava che forse proprio quelli che vi arrivavano “per necessità”, alla ricerca disperata di una salvezza, di un miglioramento delle condizioni di vita delle proprie famiglie (come vi erano giunti a suo tempo gli antenati di sua madre, provenienti da altre sponde del Mediterraneo), quelli avessero veramente il diritto di approdare lì e di costituirne la rinnovata popolazione: nuovi braccianti agricoli e pastori, nuovi vendemmiatori e raccoglitori di olive, nuovi manovali dell’edilizia, nuovi marinai,imbarcati per lavori di fatica, pescatori o motoristi, aiutanti fornai, addetti alle consegne, nuovi operai e piccoli artigiani, fabbri e lattonieri, nuovi piccoli commercianti con posto fisso, o ambulanti, balie e infermiere, nuovi musicisti, nuovi poeti, scrittori e cantori, dialettali e universali insieme, nuovi poveri e sconfitti provenienti da ogni paese povero e sconfitto del mondo…

    Da “Terra d’approdo, del mezzo marinaio o del gancio d’accosto.”
    di Shãbb Zaytun a cura di Joa Oliva

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