Effetto cartolina
1 Gennaio 2011Alfonso Stiglitz
Il nostro Direttore, bonario nell’aspetto e nel tono di voce, è, in realtà, un perfetto provocatore. Una fredda sera di dicembre, deliziata da un venticello gelido di tramontana, una sua domanda telefonica mi coglie alla sprovvista: è vero che noi sardi ci interessiamo di più alla storia antica che a quella moderna? E io in quel momento di freddo, da provocatore distratto, ci casco e ora mi trovo qui a riflettere sul tema.
In parte è inevitabile che l’antichità ci interessi di più: l’incombere delle migliaia di nuraghi, con il corollario di tombe dei giganti, da sempre visibili nella loro monumentalità e presenti nella nostra quotidianità ci hanno costretto, sin da piccoli, a considerarli parte naturale di noi stessi, con la quale conformare il nostro essere. E poco importa se si tratta di costruzioni non eterne ma realizzate da persone in carne e ossa, da società fissate in un epoca ben precisa e poi trasformate, abbandonate, distrutte, riutilizzate. Poco importa che il paesaggio attuale dei nuraghi non sia, nemmeno lontanamente, quello della loro epoca, ma sia frutto della storia moderna, di uomini e donne di altre epoche, di quegli uomini e donne che hanno vissuto la Sardegna spagnola o quella savoiarda o quella delle grandi trasformazioni degli ultimi cinquant’anni.
L’effetto cartolina turistica ci è più consono; il paesaggio dei nuraghi è quello di una Sardegna arcaica, legata a costumi primitivi, insensibile alla modernità. Paradossalmente è quell’effetto cartolina che schiaccia la lotta moderna, contemporanea, dei pastori, fatta con metodi attuali e con richieste del tutto in linea con i tempi. I pastori hanno la solidarietà non in quanto categoria produttiva contemporanea, ma in quanto eredi dei mastrucati nuragici. Da qui, anche, la sorpresa di vederli vestiti normali e parlare di economia capitalistica e conseguentemente da reprimere brutalmente, come è avvenuto in questi giorni in Continente. È la realtà di una visione del mondo, del nostro mondo, che ci viene dal passato recente, coloniale, per il quale le società primitive non hanno storia, ancor meno storia contemporanea. Il selvaggio è legato a un’epoca astorica, possibilmente incatenato alla contemplazione di antenati mitici, magari retaggio di civiltà esterne, superiori, che avevano le conoscenze necessarie e il dominio del mondo; per poi lasciare le pallide larve, culturi del mitico passato, quali siamo oggi.
Tutti conoscono Ampsicora, ogni paese ha una via a lui dedicata, ma quanti ricordano le occupazioni di terre dei contadini del ‘900, storicamente e culturalmente più decisive per la nostra storia. In questo quadro la storia della Sardegna viene individuata come un processo lineare di decadenza da una primigenia età felice e di dominio verso una sequenza ininterrotta di repressioni, dominazioni e relativi tentativi di rivolta, che portano a onorevoli ma terribili sconfitte. E la celebrazione della sconfitta, forma suprema di resistenza all’oppressore, diventa l’unico modo di fare storia: un destino cinico e baro ci ha impedito di essere una nazione indipendente capace di forgiare il nostro destino. Da qui il disinteresse sostanziale, se non il fastidio verso lo studio e l’appassionarsi ai sardi dei periodi di dominazione, figli minori di una storia volta alla celebrazione di un passato glorioso di eroi, o per meglio dire, di Giganti.
Per restare nella storia antica, è significativo il modo di esprimersi dell’interesse verso la Sardegna romana; cronologicamente è un periodo che dura poco più di settecento anni, nei quali i sardi hanno vissuto, bene e male, e nel quale affondano le radici di molta della nostra cultura, tradizioni e lingua. Ebbene per esso si sente l’interesse solo per la terribile sequenza di rivolte e deportazioni che avvennero all’inizio, qualche decina d’anni che riescono a cancellare gli altri settecento. I subalterni, i vinti, portatori sempre e comunque di uno spirito barbarico, nella visione di un certo storicismo, come ci ricorda Gramsci, non hanno storia, non meritano interesse e, soprattutto, non si fanno uccidere volontariamente. O, per fare un altro esempio, l’esaltazione delle statue di Monti Prama, non come espressione di elevata qualità artistica, di un ceto di potere che esalta se stesso, fatto di uomini e donne in carne e ossa, di una società che affronta la propria contemporaneità scegliendo una pluralità di strade, che non riescono poi a mantenere il passo con i propri tempi; l’esaltazione, invece, come “Giganti”, oggetti privi di una collocazione nella realtà storica, simboli ideologici di un passato felice, al di là del tempo. Una storia degli aristocratici, dei portatori di potere, ancorché sconfitti.
O il caso dell’esaltazione di Eleonora, eroina naturalmente sconfitta e il contemporaneo disinteresse per il padre Mariano, che non veste i panni del romantico vinto.
Quello che manca, o che spesso da fastidio, è la storia di tutti, dei subalterni, di quei ceti che vivono in un periodo preciso, datato, con rapporti sociali, culturali, politici concreti e che partecipano a quei cambiamenti che hanno determinato a realizzare. Da qui il disinteresse verso la storia moderna, nella quale non ci sono eroi, salvo piccole esaltazioni, come per Gio Maria Angioy, esponente di un ceto dirigente inteso ad aprirsi verso la contemporaneità e contro il feudalesimo o come i sassarini, carne da macello, sommersi oggi da una melassa retorica. Tutte forme volte a mitizzare la nostra storia e a disinnescarne le potenzialità eversive rispetto a un potere che è ancora in grado di decidere cosa possiamo o non possiamo fare. Che ci importa dei Giganti, abbiamo una lunga storia di millenni e millenni di donne e uomini protagonisti, in ogni momento, della propria storia, studiamola tutta, nella sua concretezza e senza feticismi (Gramsci docet, ancora).