Si ferma al 58 il recente romanzo di Salvatore Pinna
5 Maggio 2019[Cristina Lavinio]
Salvatore Pinna, studioso di cinema, a lungo direttore della Società Umanitaria di Cagliari, non è nuovo alla scrittura letteraria. Ha esordito nel 2004 con un delizioso libretto di aforismi (Tre corsi di linguistica leggera, Cuec 2004) inframmezzati da un divertente brevissimo testo teatrale; aforismi e raccontini ironici sono anche nel libretto successivo Tutti i puntini sulle i. Breviario per lettori borderline (Cuec 2007). Il suo Fermata al 58, pubblicato qualche mese fa (dicembre 2018) dalla casa editrice cagliaritana AIPSA, è il suo secondo romanzo dopo La vera storia di Gigaggioga Gungù (Cuec 2004), che era un romanzo storico, o meglio la divertente parodia di un romanzo storico.
Ora, con Fermata al 58, autobiografico nei limiti consentiti dalla finzione narrativa, Salvatore Pinna non si smentisce: anche quest’opera può essere vista, almeno per alcuni aspetti, come una sorta di parodia, in questo caso di un romanzo autobiografico. Già il titolo, molto efficace, può far pensare a una fermata di pullman oppure a un numero civico; rinvia invece a una vicenda che, iniziata nel 1944, anno della nascita del protagonista-narratore, finisce nel 1958. Contrariamente a quanto accade nelle autobiografie canoniche, dove la storia narrata in prima persona si sviluppa temporalmente fino al momento in cui l’autore la narra, qui chi dice io è un quattordicenne (quasi alla fine del romanzo afferma «Parlo di ottobre, meno di due mesi fa») che sta per lasciare la sua casa nel Castello di Cagliari, per trasferirsi insieme alla famiglia in altro più moderno quartiere. La storia si ferma dunque in quel 1958, tranne poi non fermarsi davvero, dato che alla fine compare anche il narratore adulto che, a distanza di tanto tempo, in un Epilogo preceduto da un capitolo di riflessioni metanarrative, torna in quei luoghi della sua infanzia.
Inoltre, altra efficace infrazione rispetto all’autobiografia pura, alla voce del narratore quattordicenne è intercalata ogni tanto quella della madre, che gestisce per intero quattro capitoli, distinti in corsivo dagli altri ed esemplari anche per realizzare quanto potesse essere difficile, in quegli anni sicuramente più di oggi, la condizione della donna. E’ una giovane madre di già sette figli, che non ha quasi il tempo per piangere il suo più piccolo, morto all’improvviso; una donna che deve pensare alla famiglia, si deve arrabattare per fare da mangiare con poco e che non ha tempo neanche per rimpiangere le proprie personali aspirazioni di cantante….
Dell’io quattordicenne che narra la maggior parte della storia vediamo tutte le perplessità e le scoperte sul mondo, in una crescita cognitiva che avviene grazie all’ambiente frequentato e, soprattutto, ai suoi coetanei o a ragazzi di poco più grandi o più piccoli, ma anche grazie alle ragazzine di cui si invaghisce, talvolta a due a due, e che gli permettono, a lui come ai suoi amici, di scoprire la differenza, almeno fisica, tra maschi e femmine, e di immaginare quella cosa ancora misteriosa che può essere il sesso. I padri brillano invece per la loro assenza distratta, tanto da far guardare con invidia persino quei pochi che prendono a schiaffi i figli, dando così segno di occuparsi di loro. Del resto, anche i padri appartengono a quel misterioso mondo degli adulti che non si capisce più di tanto, le cui azioni appaiono spesso dettate da motivazioni misteriose e incomprensibili.
Imparando insomma soprattutto dal gruppo dei pari, si scoprono pian piano anche le differenze sociali e culturali, o si scopre come la scuola possa essere un rifugio felice per bambini che hanno solo quella e che fanno di tutto per farsi bocciare ogni anno, pur di starci più a lungo. Ma c’è anche il Circolo San Saturnino in cui il narratore è finalmente stato accolto guadagnandosi un ruolo nella squadra di calcio, ci sono i giochi tra le macerie dei tanti palazzi bombardati e le pericolose scorribande sui tetti di Castello, che permettono di guardare la città, con il mare in fondo, dall’alto in basso, con la consapevolezza anche di una sorta di superiorità ‘nobilitante’.
Cagliari anni ’50 del secolo scorso e Castello: sono queste le coordinate cronotopiche della storia narrata, relative cioè allo spazio e al tempo in cui si svolge la vicenda, ribadite anche dalla lingua usata, disseminata – ma senza esagerazioni – di parole dialettali (come axina, cambarara, tremuliggia e tremuliggioni, pisciurrè, maccionis, giarrettus, caraganzu e succiosa, sbertidori, maistru ‘e muru, fogheri, trassa) o italianizzate (come pindacciare, scrogiolare, smermare, spuligare, pincaro, babaiole, merdone, asurio, balossi, zugate). Né mancano da una parte parole o espressioni logudoresi (da Bitti e Modolo, del resto, proviene la famiglia del narratore, con un padre che – come gli viene rimproverato dalla moglie – non ha ondra, cioè non è orgoglioso dei suoi figli), dall’altra forme di italiano regionale, come quando leggiamo di qualcuno che «stava ad osservare fisso i vetrini» (con quel fisso che spesso usiamo, in Sardegna, per intensificare la fissità prolungata di un’azione). Sottilmente carico di una pragmatica da parlato locale è anche quanto si afferma subito dopo a proposito di chi guardava fisso i vetrini, cioè il Brotzu scopritore degli antibiotici a Su Siccu: «’Avrà preso il Nobel come Grazia Deledda’, ha affermato Paoletto Mei […] ‘Una basetta’. Ha concluso signor Boni. ‘Era stato preceduto da inglesi, americani e da non so chi altri’. ‘Praticamente si era pindacciato da solo’» conclude un altro personaggio.
Se alcune delle forme espressive sottolineate sono anche gergali e sono tuttora ben note, altre sono nomi di oggetti o di usi forse ormai sconosciuti per i ragazzi di oggi, a partire dalle bardufole (trottole di legno) con cui si gioca, dalla martinica (designante il mercato nero del periodo bellico e post-bellico) fino al conciagossu, cioè all’artigiano che aggiustava i cocci. E forse ormai solo i ragazzi di quel tempo sanno per esempio cosa fosse la pappa americana o ricordano i tanti film e attori allora molto popolari citati nel romanzo (La sepolta viva, con Milly Vitale; Il brigante Musolino, con Amedeo Nazzari; Mister Smith va a Washington con James Stewart, King Kong…), le tante canzoni d’epoca o la stessa capacità attrattiva esercitata, ovunque, dall’Azione cattolica e dai suoi Circoli (in cui gli “aspiranti”, nella fretta di crescere, non vedevano l’ora di diventare “effettivi”, passando al grado superiore), la cui attività principale era l’organizzazione di tornei di calcio.
Inoltre, tanti episodi e personaggi gustosi si alternano sulle pagine del romanzo di S. Pinna, in una serie di brevi capitoli dai titoli suggestivi e azzeccati, anch’essi frutto della straordinaria attenzione dell’autore per le parole e la loro ricchezza semantica, tale da permettere giochi e accostamenti, o vere e proprie ’capriole’ gustose e ironiche, senza però precludere lo sviluppo di temi molto seri e da prendere sul serio. E’ un gusto cui l’autore ci ha da tempo abituati quello per inversioni o scambi degli attributi più consueti per ciò di cui si parla (per esempio, nel prologo, non è casuale che ci sia da una parte il tanfo del mare e dall’altra il profumo penetrante delle officine), per degradazioni (come quella dei contos de foghile che, in un appartamento di città, diventano «contos del braciere»), per contrasti ironici e capovolgimenti semantici che rendono divertente la lettura di questo bel romanzo che è in realtà, in molti punti, toccante e intenso, al di là della sua apparente ‘leggerezza’.
Inoltre, aldilà dell’ambientazione precisa, aldilà del fatto che siamo di fronte a una vicenda storicamente ben delineata, intessuta di citazioni e giochi intertestuali con la cultura del tempo, il racconto è in realtà un racconto di formazione, con al centro gli interessi e le aspirazioni tipiche dei ragazzini, secondo un meccanismo per certi versi universale. Solo apparentemente, dunque, il lettore ideale inscritto in questo romanzo è un cagliaritano di Castello, per giunta vissuto negli anni dell’immediato dopoguerra: anche chi di Castello non sa nulla potrà comunque apprezzare questo mondo che gli apparirà allora, con i suoi misteri e i suoi tetti, e i giochi spericolati dei bambini che vi si arrampicano, un mondo affascinante ed esotico, visto e presentato con occhi simili a quelli del bambino che si è stati o dei tanti bambini che ciascuno ha conosciuto. Non c’è dunque bisogno di essere cagliaritani o sardi per gustare questo romanzo, così come non c’è bisogno di essere napoletani per gustare, per esempio, L’amica geniale di Elena Ferrante o Il giorno prima della felicità di Erri De Luca, con ragazzine e ragazzini che crescono e fanno ‘prodezze’ in quartieri altrettanto popolari e fedelmente rappresentati (anche con una lingua che si apre ai napoletanismi). Se così fosse, non si giustificherebbe il loro grande successo, persino internazionale nel caso della ‘misteriosa’ Ferrante. Ed è un meritato successo di pubblico e lettori quello che incomincia a registrarsi anche per il nostrano Fermata al 58, non a caso ristampato dopo solo qualche mese dalla sua prima uscita.
5 Maggio 2019 alle 18:28
Dopo la recensione di Cristina Lavinio sarei tentata di leggere il bel romanzo di Salvatore Pinna per la terza volta.
21 Maggio 2019 alle 11:00
[…] Il romanzo Fermata al 58 verrà presentato venerdì 24 maggio 2019, alle ore 19:00, nella sala conferenze Honebu, a Cagliari/Pirri. La sala conferenze si trova al numero 100 di Via Fratelli Bandiera. Vi consigliamo vivamente la partecipazione, e per convincervi vi invitiamo a leggere questa magnifica recensione di Cristina Lavinio per Il Manifesto Sardo. […]