Sistemi scolastici e mobilità sociale
16 Maggio 2007di Gianna Lai
“Ci sono ragazzi che non hanno voglia di studiare, e allora è meglio che imparino presto un mestiere e vengano presto avviati al lavoro”. La legge sull’obbligo di istruzione a 16 anni è nata così da poco, e già se ne prevede l’adempimento anche al di fuori del sistema scolastico, secondo le vecchie ideologiche consuetudini del “mandatelo nel campo: non è adatto a studiare” , denunciate dalla scuola di Barbiana, or sono 40 anni fa. Negli anni Sessanta la nascita della istruzione di massa ha coinciso con un enorme movimento di ascesa sociale, che ha combattuto duramente contro la tradizionale funzione selettiva della scuola. Oggi, in un paese che sembra accontentarsi di meno istruzione, nonostante lo sbandieramento continuo della società della conoscenza, è venuta meno la funzione primaria della scuola pubblica, di favorire, attraverso l’istruzione, le opportunità di cittadinanza per tutti. E così, non essendo più in grado di intercettare le fasce più deboli della popolazione adolescenziale, essa perde via via la capacità di emancipare.
Democrazia e mobilità sociale hanno origine in un buon sistema scolastico, che ripristini la funzione riequilibratrice attribuita dalla costituzione allo Stato, come sviluppo del fondamentale principio di eguaglianza. Per rilanciare un paese in difficoltà, per restituire ai giovani uguali opportunità e uguali diritti, bisogna cioè sostenere un grande progetto sociale e civile, ricominciando proprio dalla scuola affinché la Repubblica sostenga le fasce sociali deboli: la povertà riguarda in Italia l’11 per cento delle famiglie, e si concentra di più nel Meridione dove, naturalmente, salgono anche i tassi di dispersione scolastica; e così la mancanza di scuola perpetua un destino sociale di emarginazione e precarietà. Eppure non si può dire che non ci sia richiesta di istruzione, se a iscriversi a scuola, dopo la terza media, sono il 97 per cento dei ragazzi. Lo Stato deve intervenire quindi su quel 30 per cento che l’abbandona e l’innalzamento dell’obbligo a 16 anni è la giusta risposta, perché maggiore sapere facilita la cittadinanza.
La questione dell’istruzione appartiene a tutti e se la scuola deve cambiare e ridefinire il suo asse culturale, il processo deve investire la società nel suo complesso. Una buona istruzione nella scuola pubblica per chi ne ha più bisogno, e nelle situazioni a maggior rischio sociale, a favore dell’apprendimento, del coinvolgimento e del sostegno ai ragazzi, implica innovazione contro la burocrazia e i deliri aziendalistici, e premia il protagonismo della comunità dei docenti.
Ma sono necessarie risorse per promuovere una vera istruzione di massa: bisogna ridurre il numero degli alunni per classe e eliminare il precariato degli insegnanti. I tagli della Finanziaria invece dimostrano quanto scarso sia l’interesse del governo e della politica per l’istruzione e la crescita culturale del paese (una scuola per tutti va bene al massimo in campagna elettorale), mentre bisognerebbe subito mettere mano a una efficace politica di diritto allo studio. L’attenzione va rivolta in particolare alle famiglie più indigenti, perché si affermi, nei primi due anni di obbligo della scuola media superiore, il principio di inclusione a cui deve ispirarsi la scuola di tutti: obbligo a 16 anni, nella prospettiva dei 18, in un biennio scolastico unitario, orientativo, gratuito. E’ operazione costosa? Ben più costosa, quasi 4 volte per allievo, è l’istituzione di “Percorsi integrati contro la dispersione” al di fuori della scuola, nella formazione professionale. Un altro canale di istruzione, che distingue cioè il conoscere dal fare, destinato proprio a chi ha più bisogno di più scuola, e proprio nella fase critica dello sviluppo adolescenziale, quando si consolidano i saperi disciplinari, quelli che servono all’apprendimento per tutta la vita. E’ sconcertante che la Finanziaria erediti i provvedimenti del precedente governo, in continuità con la legge 53 della Moratti, senza che sui percorsi integrati siano mai state condotte verifiche circa l’efficacia educativa e la garanzia di accesso al lavoro. Il principio dell’obbligo a 16 anni è forte, specie ora che gli istituti tecnici e professionali ritornano nel sistema nazionale dell’istruzione statale. Molto debole è invece il compromesso che si vuol realizzare fra scuola e formazione professionale. Basti pensare ai forti interessi delle agenzie private in questo settore, sostenute dalle risorse pubbliche regionali, e alle forme clientelari della gestione dei percorsi integrati destinati ai quattordicenni (in Sardegna anche a quelli privi di diploma di terza media). Un processo di descolarizzazione di massa ancora più grave nel Mezzogiorno, da cui i giovani possono riprendersi solo con l’istituzione di un sano obbligo da assolvere esclusivamente nel sistema scolastico nazionale. Siamo perciò contro la presenza dei 20 sistemi (uno per regione) della formazione professionale nella scuola dell’obbligo, perché differenziano i percorsi a seconda delle disponibilità finanziarie locali. Parte proprio dai processi di regionalizzazione la privatizzazione dei diritti, il loro godimento in base alle differenze territoriali, cioè la fine della cittadinanza e della solidarietà nazionale.
In Sardegna la legge sull’istruzione, così avara sul diritto allo studio, parla addirittura di “un sistema educativo regionale” in riferimento alla “specificità identitaria della Sardegna”. Forse perché si vuole regionalizzare un pezzo di scuola, sul modello della devolution leghista, affidando appunto agli enti di formazione i percorsi integrati destinati ai quindicenni che adempiano all’obbligo di istruzione. Forse perché, ed è la stessa legge a dirlo, la Regione vuole definire con proprie indicazioni (ma non è materia che riguarda il ministro della pubblica istruzione?) gli obiettivi formativi finalizzati alla conoscenza del patrimonio culturale e linguistico della Sardegna. E vuole farlo utilizzando il 20 per cento della quota oraria, quella che invece, secondo il ministro, deve ritornare direttamente alle scuole, perché i docenti ne programmino i contenuti secondo le esigenze degli studenti e del territorio.
Bisognerà ritornare sull’argomento. Certo, assegnare una funzione che è pubblica al privato, al mercato, inserire nell’istruzione, cioè, la formazione professionale con i suoi interessi parziali, lontani dall’interesse generale che invece caratterizza la scuola, è forma di selezione controllata e diretta dal ceto politico governativo e regionale, che pretende d’intromettersi nella materia. Mentre c’è un’altra istituzione della Repubblica preposta a questo compito ed è la scuola, per la parte che si riferisce a cultura, istruzione e educazione. E’ affare della scuola, della funzione docente, il recupero degli studenti e la definizione di obiettivi formativi. La Repubblica rimuove gli ostacoli, la Regione garantisce le risorse contro la dispersione e per un efficace diritto allo studio. Alle agenzie private della F.P, liberate dall’incongruo compito di gestire ragazzi difficili, vanno riservate le politiche attive del lavoro.
Il recente impegno dell’Europa progressista contro la Bolkestein che privatizza l’istruzione, la sanità e i servizi in genere, ha rimesso in primo piano l’aspetto più innovativo della cultura dei diritti, quello secondo cui le politiche per realizzarli non sono negoziabili, sono dovute, i diritti cioè sono inviolabili: per questo noi continuiamo a credere che il superamento del liberismo senza uguaglianza si fondi sulla valorizzazione dei sistemi educativi a garanzia dello sviluppo democratico.
CIDI (Centro d’iniziativa democratica degli insegnanti – Cagliari)