“Smontaggio” dell’economia mista e crisi del capitalismo italiano
1 Novembre 2016
Gianfranco Sabattini
Tra la fine del Novecento e l’inizio del Duemila, l’Italia ha liquidato la struttura portante della propria economia, fondata sulla specificità del proprio capitalismo, espressa dalla presenza di un robusto settore pubblico nel tessuto produttivo, che valeva a qualificare l’economia del Paese come “economia mista”. Il risultato è stato, a parere di Giuseppe Berta (“Che fine ha fatto il capitalismo italiano?”), che non soltanto è venuto meno un capitalismo dai lineamenti prettamente italiani, ma è mancata anche l’elaborazione di un “modello economico del nostro Paese”, che aiutasse, “più ancora che a comprendere i problemi che lo affliggono, a intravedere una prospettiva definita”.
L’economia italiana è oggi internazionalmente integrata, attorniata dal complesso delle economie degli altri Paesi, rette dalle diverse forme in cui si declina il capitalismo attuale; essa, però, in mancanza della sua antica specificità, è stata spinta ai margini dell’economia mondiale, proprio perché priva di un assetto produttivo riconducibile ad un ben definito modello di governo del proprio sistema economico. Quell’assetto è venuto meno, non perché gran parte di esso sia stato trasferito sotto il controllo di imprenditori esterni, ma perché ha perso la propria coesione interna; non deve stupire perciò – afferma Berta – che ora “sia così difficile coglierne una linea di evoluzione”.
Perché è accaduto che l’Italia “smontasse” la propria forma specifica di capitalismo, privandosi in tal modo dello strumento col quale aveva realizzato la propria modernizzazione, non solo economica?. A parere di Berta, l’evoluzione della base produttiva italiana è sempre stata caratterizza dalla presenza di due correnti di pensiero, che si sono confrontate tra loro “in differenti momenti e passaggi” della storia contemporanea del Paese. La prima corrente è stata espressa da un’”élite industrialista”, mossa dalla volontà di guidare l’Italia “verso il traguardo delle produzione su larga scala, così da reiterare in modo originale gli orientamenti più forti dello sviluppo occidentale”; la seconda linea di pensiero, per contro, non si è mai orientata verso l’esterno come la prima, per garantire il successo industriale raggiunto dagli altri Paesi, ma ha sempre sostenuto l’opportunità che si enfatizzassero “le condizioni peculiari in grado di animare una crescita magari più lenta, ma costante e solida”.
Delle idee dell’antico confronto tra le due linee di pensiero non restano che ricordi lontani; quindi, occorre prendere atto che la seconda corrente è oggi la “depositaria dell’imprinting italiano” dal quale si propende a far dipendere il nostro futuro, al quale sono affidate le opportunità economiche del Paese.
In passato sono stati coloro che hanno sposato la prima linea di pensiero a far valere il proprio punto di vista; ma ora che la contrapposizione delle due linee di pensiero riguardo all’evoluzione della struttura economica dell’Italia si è estinta, occorre tuttavia riconoscere che, con il governo dell’economia ispirato dalla seconda linea di pensiero, lo smantellamento dell’economia mista non è stata supportata da una visione complessiva della struttura del sistema economico italiano e delle dotazioni sulle quali esso poteva “fare affidamento per il proprio futuro”. Senza una visione, anche approssimata, del proprio futuro, si doveva riconoscere – afferma Berta – che il Paese non poteva andare da nessuna parte, né poteva sperare, senza il suo supporto, di poter “ritornare su un cammino di crescita, pur contenuta e minore rispetto a un tempo”.
Sono trascorsi pochi lustri, osserva Berta, dacché l’IRI è stato liquidato nel 2000, senza che il Paese sia stato dotato di un nuovo modello di crescita e sviluppo, al fine di impedire che la sua struttura capitalistica diventasse “tanto labile e sbiadita come ora” e il suo tessuto imprenditoriale si rattrappisse sino quasi a scomparire; ne è prova il fatto che, dopo lo smantellamento dell’IRI, il “sistema delle imprese ha smarrito i suoi lineamenti storici, senza acquistarne di nuovi e soprattutto senza raggiungere un assetto inedito abbastanza saldo da far maturare una credibile prospettiva di sviluppo”.
Sin dalla sua costituzione, nel 1933, l’IRI è stato un soggetto determinante per il futuro del capitalismo italiano, non per via del quadro istituzionale corporativo del regime politico esistente all’epoca, ma in quanto l’istituto è rimasto estraneo, al “di là dei tributi di rito [ ] pagati alla retorica del fascismo”, a quel quadro. La sua costituzione ed il suo ruolo sono ascrivibili a quegli uomini che sono stati i portatori della linea di pensiero industrialista cui si è prima accennato e che ha avuto in alcune personalità, quali ad esempio Alberto Benedice e Donato Menichella, i suoi più autorevoli e prestigiosi rappresentanti. Per iniziativa di costoro, l’IRI, destinato ad attuare la politica degli smobilizzi nei quali risultava incagliata gran parte del sistema industriale italiano dopo la Grande Guerra, a partire dal 1937 si è configurato come “un polo di grandi imprese” all’interno dell’economia del Paese; il suo merito è consistito nell’aver garantito la continuità di “un apparato produttivo che sarebbe franato e si sarebbe disarticolato sotto l’urto della crisi” provocata dalla Grande Depressione del 1929-1932.
All’alba dell’Italia repubblicana – afferma Berta – l’IRI ha costituito il punto di partenza della ricostruzione del Paese; le sue imprese hanno permesso all’Italia di riaffacciarsi sul mercato internazionale, divenendo negli anni della ricostruzione e del “miracolo economico” un vettore insostituibile dell’innovazione e del progresso tecnico; è stato grazie ad esso che il sistema economico nazionale ha potuto approfondire la sua presenza sui mercati internazionali, per diventare, assieme all’ENI, l’”agente del nuovo paradigma dell’economia mista”. Con questo nuovo paradigma, il sistema misto è divenuto il tratto distintivo dell’assetto dell’economia italiana del secondo dopoguerra, stabilendo tra la componente pubblica del sistema economico e quella privata “una relazione di interdipendenza”, diventata “condizione di garanzia per la continuità stessa dell’iniziativa privata”.
Il ruolo e la funzione del nuovo paradigma incentrato sull’IRI sono stati svolti con efficienza sino alla fine degli anni Sessanta, per precipitare poi in una condizione di insostenibilità, allorché, per effetto delle trasformazioni sociali interne e della cambiamento delle condizioni di mercato dei prodotti petroliferi, il polo pubblico delle imprese è stato convertito in strumento di una politica economica volta a togliere dalle difficoltà il sistema sociale dell’Italia. E’ accaduto così che l’IRI, “sollecitato a operare quale strumento delle politiche di governo”, fosse stravolto, “annichilito dalla sottomissione all’autorità politica”, dall’assunzione di un “carico di compiti tanto ampio quanto contraddittorio, che poteva essere sostenuto soltanto addossandone i costi sulla collettività”.
Quando Romano Prodi ha assunto la presidenza dell’IRI nel 1982, l’istituto versava in condizioni talmente gravi da divenire nell’immaginario di molti osservatori una bomba ad alto potenziale a miccia accesa; la classe politica si è allora convinta della necessità di una svolta, da realizzarsi con lo smantellamento, nel 2000, dell’economia mista, sulla quale era stato fondato nel dopoguerra il successo del capitalismo italiano. Lo smantellamento è stato realizzato attraverso la prevalente privatizzazione delle imprese dell’ente pubblico, senza che i partiti di governo e di opposizione pensassero di accompagnare l’eliminazione del polo pubblico dell’economia con l’elaborazione di un’idea precisa circa l’assetto da assegnare alla futura struttura economica del Paese.
Con l’abbandono dell’economia mista, il sistema delle imprese italiane è stato incapace di migliorare la propria efficienza; senza l’”ombra protettiva dello Stato e senza l’impulso dell’intervento pubblico, la struttura del capitalismo italiano ha cessato di supportare lo sviluppo della società” e di “far marciare la sua crescita” secondo i ritmi del passato. E’ divenuto così inevitabile rinvenire la causa della progressiva caduta del capitalismo italiano, tra la fine del Novecento e l’inizio del Duemila, nel venir meno del ruolo dell’economia pubblica che, per gran parte del secolo scorso, aveva realizzato una coesistenza dinamica positiva con l’economia privata del Paese.
Ricordare le vicende che hanno caratterizzato in negativo l’evoluzione del capitalismo italiano nel corso del XX secolo e la liquidazione della sua componente pubblica, non significa – afferma Berta – che si debba “rifare l’IRI”; lo impedirebbero, tra l’altro, le regole comunitarie vigenti, che l’Italia ha accettato dopo il trattato di Maastricht, proprio per introdurre nel governo dell’economia una netta discontinuità rispetto al passato.
Di fronte alla crisi che da tempo affligge il Paese, il problema non sta tanto nell’immaginare un’Italia in cui sia presente uno strumento alternativo all’IRI, quanto nell’incapacità delle forze politiche, sindacali ed imprenditoriali di promuovere la formulazione di un’ipotesi in grado di far ripartire il ciclo virtuoso della crescita economica, sia pure in presenza di condizioni operative radicalmente diverse da quelle esistenti nel passato; soprattutto, senza la commistione fra politica ed economia che è stata la causa principale della crisi dell’economia pubblica italiana.
Oggi – afferma Berta – il sistema industriale italiano “proietta di sé due immagini diametralmente opposte”: una è quella che prefigura un “processo di destrutturazione del capitalismo delle grandi imprese storiche”; l’altra è quella espressa “dall’ascesa delle imprese dal profilo intermedio, che incarnano, a differenti stati di evoluzione, quanto di nuovo e di più solido è venuto coagulandosi all’interno dei territori dove si è ramificata la presenza dell’imprenditorialità”. Si tratta di realtà che si sono separate da tempo; non essendo però dotate degli stessi ritmi dinamici, esse configurano due aree economiche distinte, alle quali corrispondono due differenti prospettive: alla prima guardano coloro che esprimono una valutazione negativa sullo “stato di salute” del sistema economico italiano; alla seconda tendono lo sguardo coloro che sono propensi ad esprimere una valutazione ottimistica, fondata sul ruolo e le funzioni delle “imprese locomotive” presenti nella “geografia dei distretti industriali”, operanti in particolare nel Veneto, in Toscana, in Lombardia, Emilia-Romagna e Campania.
Tuttavia, a parere di Berta, non basteranno le imprese locomotive dei distretti industriali, né le poche medie imprese che sono riuscite ad inserirsi nel mercato internazionale, “a cambiare il ritmo lento a cui marcia l’economia italiana”; ciò perché l’insieme di tali imprese non “dispongono della forza sufficiente per disseminare i loro stimoli allo sviluppo in una società che risente troppo poco della loro presenza e che sovente nemmeno avverte la portata effettiva e l’efficacia delle loro azioni”. Ciononostante – conclude Berta – è da qui che deve partire il discorso sulle future prospettive economiche dell’Italia.
Il cammino appare certamente “dissonante” rispetto al quadro dell’Italia odierna, con il ridimensionamento della presenza della grande impresa, un’azione sindacale che pare non essersi accorta del diverso contesto che nel passato poteva giustificarla e un’attività politica interessata a compiere riforme costituzionali per governare il Paese nella presunzione di poterlo reinserire nell’alveo dell’antico processo di sviluppo industriale. Ciò di cui, invece, il Paese ha bisogno è il ridimensionamento delle sue aspettative, quali quelle che possono essere derivate dalla storia recente. Senza che il ridimensionamento debba essere recepito come una sorta di autoripiegamento rispetto allo spazio occupato nel passato, esso deve invece costituire – come afferma Berta – la premessa per “riguadagnare” al Paese una prospettiva certa e stabile, in funzione della quale poter effettuare scelte responsabili.