Sonetàula

16 Marzo 2008

Sonetaula
Mario Cubeddu

Con Sonetàula Salvatore Mereu ha realizzato un film bello e importante. Ripropone il regista sardo come autore a livello internazionale; dopo il riconoscimento veneziano a Ballo a tre passi, il nuovo film è stato proiettato in prima mondiale al festival di Berlino. E’ il risultato di un considerevole impegno produttivo, in cui sono state coinvolte molte istituzioni dell’isola, dai vertici della Regione Sarda alle province di Oristano e Nuoro, a molti comuni sardi, a tantissimi cittadini. Intorno ad esso si è creata una attesa diffusa, quasi che un’isola intera trepidasse per l’esame di laurea di un proprio figlio che andava a farsi onore di fronte a una commissione giudicante universale. Si sapeva che Mereu era all’altezza della sfida.
Il film è ispirato al romanzo che Giuseppe Fiori ricavò dalla sua attività di cronista e dalla analisi dei problemi della “società del malessere”, quella della Sardegna del secondo dopoguerra. Racconta la vita di un giovane, dai tredici anni alla morte violenta, avvenuta subito dopo i venti anni, lo spazio intero dell’età della formazione e dello sviluppo della personalità. La vicenda si colloca nell’arco di tempo che va dal 1938 ai primi anni Cinquanta, quelli dell’ERLAAS, l’ente regionale che grazie all’aiuto degli americani riuscì a debellare la malaria. Vi è nel film un riferimento esplicito alle vicende del banditismo in quegli anni. Una giovinezza come quella di Sonetàula non è in quei tempi un’eccezione. Essa ha fatto parte dell’esperienza di molti sardi cresciuti negli ultimi anni del fascismo: essere staccati in modo traumatico dalla famiglia, essere gettati in un territorio dominato dal mutare imprevedibile degli umori della natura e degli uomini, ad affrontare una sfida in cui c’è in palio la sopravvivenza e una rapida educazione ai modi più duri e sbrigativi per procurarsela. Nell’opera di Mereu, come nel romanzo di Giuseppe Fiori che ha fornito la storia e i personaggi, c’è qualcosa di più. E’ la presenza, come alternativa di vita a suo modo avventurosa ed eroica, di quella che la Deledda nel suo primo romanzo importante aveva chiamato La via del male.
Perchè un tema certamente non inedito, più volte affrontato dalla narrativa e anche dal cinema? Con tutti i rischi di insofferenza e rifiuto da parte del pubblico? Dal risultato saremmo indotti a dire che Mereu ha voluto portare a conclusione il “romanzo di formazione” al male nella Sardegna interna, sviluppando e chiudendo tutte le suggestioni offerte dal genere sin da Banditi a Orgosolo. Allo stesso tempo il tema si prestava a una riflessione sul passaggio traumatico e doloroso alla modernità di generazioni di uomini che non hanno trovato in questo processo alcun aiuto, se non quello della propria coscienza, o della buona sorte. In questo, come in passato era avvenuto per Padre padrone, la vicenda sarda acquista caratteri universali, per il facile riscontro di percorsi simili in ogni parte del mondo. Un film che contiene il bilancio di un processo di trasformazione durato secoli; rispecchiamento di una storia che poco ha a che vedere con l’attualità, col mistero delle morti in Sardegna degli ultimi mesi ed anni, già così lontane e così avvolte dal buio dell’impossibilità di fare giustizia. La comprensione “artistica” di questa nostra violenza di oggi, come della morte inflitta per rubare pochi euro a un uomo gettato ancora vivo in un pozzo, può essere fornita più da Non è un paese per vecchi dei fratelli Coen che non dalla storia di un’adolescenza sconvolta.
Il senso della vicenda si può raccontare in poche parole: un nonno che crede di fare le scelte migliori per il nipote lo porta in realtà alla rovina. Ha in mano delle carte che, affidate al bravo carabiniere o al giudice attento, gli risolverebbero i problemi. Invece non si fida della “giustizia”, parola usata per indicare anzitutto i carabinieri, e parla a vanvera di protezioni capaci di arrivare sino a Mussolini. Codice barbaricino della vendetta più clientelismo notabilare, insomma: un’immagine efficace della Sardegna, non solo durante il fascismo. E così un giovane di vent’anni si trova a dover pagare, con l’esclusione dalla vita sociale e dalla possibilità di realizzazione individuale, la crisi di un sistema culturale e di un modo di vivere. Per colpa di chi avrebbe dovuto aiutarlo a crescere. Segno della sconfitta sarà per il vecchio dalla barba bianca, sempre dignitoso nel suo velluto, il delirio di un aeroplano che porti lui e i suoi cari lontano da una realtà intollerabile.
Nell’opera di Salvatore Mereu nessuna concessione a un approccio banale o facile al tema scelto; e quindi un film interamente recitato in sardo da attori straordinari. Per una scelta di ideologia e di stile, crediamo, non per rendere in maniera “realistica” il modo di esprimersi di un periodo storico e di un ambiente sociale. Una vicenda dal fortissimo valore simbolico viene espressa nella lingua in cui sentimenti e pensieri sono stati concepiti ed espressi. Nella bellissima scena d’amore in cui il protagonista parla della sua tormentata condizione interiore il modo in cui suonano le parole in sardo è struggente: Maddalena eo so patinde. Dove la sofferenza esistenziale diventa Passione di un Cristo in croce. La varietà di accenti e di dialetti del sardo usato dagli attori, l’evidente rifiuto di omologare i modi di esprimersi, indicano che questa molteplicità è stata ritenuta funzionale alla rappresentazione di un’isola intera, e non solo di un paese o di una subregione della Sardegna.
Il risultato ottenuto da Mereu è un’opera di grande forza poetica. Condizionata in parte sul piano strutturale dall’essere stata concepita e realizzata anche per una durata maggiore, in funzione di due passaggi televisivi. E’ raro vedere una rappresentazione così efficace del dolore degli uomini, e degli animali accanto a loro, unici compagni e fonte di lavoro e sopravvivenza. Morto io, morto un cane, diceva davanti a “sa giustizia” Pirastru, il sardo raccontato da Salvatore Satta nel suo fondamentale “Spirito religioso dei sardi”. A lui ci ha fatto pensare questa dolorosa elegia su una vicenda disperata, capace di rappresentare un momento di passaggio decisivo del nostro passato.

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