Sorry We missed You: Ken Loach e le giuste domande
16 Gennaio 2020[Francesca Pili]
È sempre lui, Ken Loach. E per fortuna! Dopo il tagliente ritratto dello sgretolamento dei sistemi di employee benefits — ridotti a mera commistione infernale di burocrazia, tecnocrazia e liberismo — tracciato in I, Daniel Blake, film del 2016, stavolta il regista britannico mostra icasticamente in cosa consiste la cosiddetta gig economy, il regime di libero mercato in cui i lavoratori vengono non propriamente assunti, ma presi ufficialmente come collaboratori non subordinati in posizioni temporanee per brevi periodi, prendendosi in carico gli stessi oneri di un lavoratore dipendente e, nel contempo, i rischi e le responsabilità di un libero professionista.
Così, in Sorry We missed You, Ricky, è sottopagato, sfruttato, sprovvisto di tutele assicurative e sindacali, ricattabile e ricattato.
Abby, sua moglie, assistente domiciliare per persone anziane e disabili non autosufficienti per conto di una agenzia che supplisce ai tagli del welfare, e che naturalmente le paga il minimo, senza straordinari, affinché Ricky potesse acquistare il furgone indispensabile al lavoro in franchising come autista-fattorino (leggi: rider) che consegna i pacchi delle multinazionali, ha dovuto vendere la sua macchina, l’unica della famiglia e quella con la quale si recava nelle varie case in cui presta servizio, ed è ora costretta a viaggiare in autobus, passando gran parte del suo tempo in attesa alle fermate.
C’è solo il lavoro, e non ci deve essere nient’altro.
Ricky e Abby non possono far altro che lasciarsi stritolare da questo meccanismo.
Eccolo, il capitalismo.
Non c’è tempo nemmeno per chi si ama.
E così, pure la coesione familiare, fatta d’amore e resistenza, ultimi baluardi dinanzi alle catene di questa nuova schiavitù, in molti momenti, sembra vacillare.
Il cinema neorealista e resistenziale di Loach, anche qui coadiuvato dalla sceneggiatura di Paul Laverty, è doloroso: una serie ben assestata di pugni allo stomaco e pugnalate al cuore.
Strazia. Devasta. Paralizza.
I suoi film non sono soltanto film di denuncia; sono fotografie del reale, ritraggono un microcosmo che rappresenta l’intero macrocosmo pan-consumistico e iper-lavorista nel quale viviamo tutti, travolti da una deumanizzazione annichilente, sprofondati in un’alienazione disumanizzante.
E non ti dà risposte, Ken Loach; ti costringe a farti certe domande.
16 Gennaio 2020 alle 16:23
Bella recensione. Mi è venuta una gran voglia di vedere il film . Lo farò appena possibile.