Sostiene Sciascia

1 Dicembre 2009

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Natalino Piras

Chi sa come sarebbe stato Leonardo Sciascia da vecchio, cosa avrebbe detto dell’oggi, della mafia da lui magistralmente raccontata. Già, Leonardo Sciascia. È un problema per le pagine culturali dei giornali sardi, estenuati nella ripetizione di tanta vecchia nouvelle vague. A parte qualche flash, ex cathedra, ché gli accademici sempre accademia pontificano,  passa senza conseguenze il ventennale, al venti di novembre, della morte di Sciascia. (Era nato a Racalmuto, provincia di Agrigento, l’8 gennaio del 1921). Eppure, attingendo dalla sua produzione filosofico-politico- letteraria,  ce ne sarebbe da dire, anche a proposito di Sciascia e Sardegna. Domenica 22, la 7 ha mandato in onda “Il giorno della civetta” (1968), tratto dall’omonimo romanzo (1961) del maestro di Racalmuto, quello che parla del passaggio dalla mafia rurale a  mafia cittadina, pronubi appalto e cemento mischiato con sterco, strade asfaltate  per imboscarvi cadaveri. Il film di  Damiano Damiani non invecchia. Anzi diventa sempre più lucida profezia di questo nostro tempo dove ancora è impossibile al capitano Bellodi riuscire a spezzare la catena tra mafia e politica. Non è un mondo poi così lontano dalla Sardegna dove, si dice, la mafia non c’è. Eppure esiste un rapporto tra Sciascia e la Sardegna. Sono possibili comparazioni tra i contesti, tra sarditudine e sicilitudine. Dice Sciascia nella “Corda pazza” (1970) che “alla base di tutto “c’è, ovviamente, il fatto geografico: la Sicilia è un’isola al centro del Mediterraneo; ma alla sua importanza in un sistema, per così dire, strategico, cioè come chiave di volta che ha assicurato potenza e dominio ai popoli conquistatori, paradossalmente ha corrisposto una vulnerabilità di difesa, una insicurezza che, accompagnandosi alla tendenza a separarsi dal sistema di potenza cui è stata di volta in volta conquistata, l’ha resa aperta e disponibile ad ogni azione militare e politica.” Paret cosa nostra. Pensate poi alle osmosi e alle differenze tra  “briganti” e “banditi”. Ci sono storie specie nella Sardegna dell’interno perfettamente interate in tante questioni  meridionali,  lucidamente esposte da Sciascia, con quella scrittura tanto “rude”  quanto di immediata comprensione. Nel cuore di tenebra sardo per esempio, il 10 luglio 1899 ci fu la battaglia del Morgogliai, nel Supramonte orgolese. Da una parte esercito e carabinieri. Dall’altra la banda dei fratelli Serra Sanna di Nuoro. L’epica popolare che contribuisce a creare tipi narrativi universali – e Sciascia molto ha narrato di epopea del vicinato meridionale e insulare, richiamando pure Grazia Deledda –  colloca la battaglia del Morgogliai in una guerra vera e propria, combattuta con le armi, nei tribunali, nelle pagine dei giornali dell’epoca. La battaglia del Morgogliai era stata preceduta dalla famosa “notte di San Bartolomeo” quando a Nuoro e dintorni carabinieri e esercito intervennero per arrestare in massa le famiglie che proteggevano i latitanti. La guerra  contrapponeva  diverse nassones, i clan famigliari, a un “altro Stato”. I banditi alla macchia arrivarono a essere centinaia. C’era chi li definiva tzigantes, giganti. Altri invece li chiamava titules, esseri spregevoli.  I banditi avevano pure protezione in alto e in basso. Ma non costituirono mai un  esercito vero e proprio come invece ce ne furono prima e dopo l’Unità, nel Sud dell’Italia. Noi su questo dobbiamo ancora speculare, sulle comparazioni di una storia che si tende a buttar via. Il bandito sardo, narrativamente parlando, resta un tipo “solo”. Non è come i “briganti” dell’Aspromonte riuniti per bande, né come i rivoltosi delle diverse Bronte e Alcara Li Fusi al tempo dei garibaldini, che in arco diacronico popolano pure le pagine di  Verga e di Vincenzo Consolo. (Ma Verga, sostiene Sciascia, demonizzò la rivolta: ricordate la novella “Libertà”?).  Per capire il ripetersi di tanta storia, il ripetersi del dominio senza che si sia capaci di contrastarlo, Sciascia insegna come entrare nelle differenze. Sono ancora “banditi” e “briganti” a “dircelo. I  “banditi sardi”, già portatori di alterità, diventano ancor più  altri rispetto al bandito Giuliano, che rivela essere omogeneo al Potere. Scrive Sciascia in un pezzo del 1968 su brigantaggio napoletano e mafia siciliana poi confluito nella “Corda pazza”: “La storiografia sul banditismo politico è a tutt’oggi di estrazione meridionale; mossa cioè da una passione locale; da una coscienza di responsabilità, per così dire etnica. Da Croce a Nitti, da Lucarelli a Doria, da Oddo a D’Alessandro a Pedio a Molfese: tutti meridionali. Si tratta di una corrente storiografica, seppure anomala, che rapporta il proprio meridionalismo al concorso romantico di un’Europa intesa a vagheggiare nel brigante la pianta uomo. È un concetto che porta ad estrarre dal fenomeno un carattere quasi univoco di rivolta sociale, se non addirittura di rivoluzione, oscuramente compresso, inarticolato, non adeguatamente innescato insomma, dentro un ordine di fatti dispiegato in senso legittimista, sanfedista, reazionario. E non che si voglia qui sostenere una tesi contraria, cioè che nell’endemico banditismo meridionale, non siano ravvisabili elementi di inquietudine sociale; tutt’altro. Solo che non bisogna mai dimenticare che il banditismo,  politico quanto si vuole, appunto è stato strumento, sempre, della politica padronale ed ecclesiastica  più reazionaria”. E più avanti: “Una forma di brigantaggio politico in Sicilia verrà a prodursi molto più tardi, quando la banda Giuliano si renderà disponibile per esecuzioni intimidatorie e terroristiche mandate dalla reazione agraria”. Giuliano è dunque un emblema e “qui entra in gioco il sicilianismo”. Si tratta di “quel complesso di sentimenti e di risentimenti, di tradizioni e di istituzioni, che per secoli avevano più o meno efficacemente contrastato ogni attentato ai privilegi del regno di Sicilia e, nell’ultimo periodo, la politica unitaria (di unione al Regno di Napoli) dei Borboni”. Qui entrano in gioco il gattopardismo e il gattopardo, il tutto muti perché niente cambi, e “Il  gattopardo” (1958) romanzo di Tomasi di Lampedusa innesca il discorso della Nuoro del “Giorno del giudizio” (1977).  E da là, dalla comparazione tra spirito religioso dei sardi e dei siciliani, si passa a parlare di altro di molto altro, leggibile in Sciascia: “Il cinghiale del diavolo” (1938) di Lussu che somiglia al racalmutese Diego La Matina che uccise il proprio inquisitore prima di morire sul rogo (“Morte dell’inquisitore”, 1964), all’ “affaire” delle lettere di Moro (1978)  che potremmo collocare nel romanzo “Procedura” (1988)  di Mannuzzu, al fatto che ancora Don Chisciotte lo ritroviamo in sicilitudine e sarditudine. E altro, tanto altro.

1 Commento a “Sostiene Sciascia”

  1. Angelo Liberati scrive:

    (…)Qui entrano in gioco il gattopardismo e il gattopardo, il tutto muti perché niente cambi, e “Il gattopardo” (1958) romanzo di Tomasi di Lampedusa innesca il discorso della Nuoro del “Giorno del giudizio” (1977). (…)

    Credo proprio che sia così.
    Angelo Liberati

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