State cancellando l’anima di Cagliari. Adesso fermatevi

1 Settembre 2016
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Giorgio Todde

Il Manifesto Sardo ripropone l’articolo di Giorgio Todde pubblicato da Sardinia Post, con la convinzione che la Cagliari che si sta affacciando abbia bisogno anche di voci contrastanti in quanto patrimonio di tutti, anche di coloro che esprimono opinioni diverse in merito ai lavori in atto. Diverse critiche sono state sollevate in merito al contenuto della lettera scritta da Todde, quasi che le sue osservazioni provocassero fastidio. Non vorremmo che questo modo di operare diventi consuetudine per mettere a tacere e isolare chi dissente. Siamo convinti che solo il dibattito civile e il confronto possano e debbano essere lo strumento che guida le opportune scelte per importanti e imponenti interventi strutturali che cambiano inevitabilmente il volto della città. Dubbi, perplessità, consigli e suggerimenti di chi non condivide i passaggi di questa amministrazione non possono e non devono essere liquidati con sufficienza. Una parte politica veramente democratica deve essere capace di saper affrontare e rispondere nel merito ai quesiti posti. Questo è sinonimo di vera crescita sociale e civile di una comunità e solo questo può far sentire tutti i cittadini partecipi del cambiamento e di una partecipazione che troppe volte si decanta e che poco si pratica. Il comunicare le scelte già decise a monte e presentarle come le migliori possibili non sempre è sufficiente. (Roberto Mirasola)

Caro Sindaco,

come si capisce guardandosi intorno, la nostra città si è trovata, per merito di chi l’amministra e per sua fortuna, una grande quantità di fondi spendibili per le opere pubbliche. Così, tra tanti cantieri, alcuni impeccabili, altri meno, ne sono toccati alcuni anche al nostro centro storico. E poiché penso che tutti, questa Giunta compresa, siamo accomunati dalla volontà di proteggere e conservare il nostro patrimonio storico e la nostra identità, che poi coincidono, vorrei proporre una riflessione su alcuni punti vitali per la salute, la bellezza e la ricchezza della città.

Con grande fiducia, s’intende, nella sensibilità di chi legge.

Quando si ama un luogo lo si ama per come è.

E intorno ad alcuni princìpi fondamentali si raccolgono tutte le comunità e tra questi princìpi ci sono quelli che regolano il modo di abitare i luoghi.

Questo non significa che quei luoghi non possano mutare mai, però il cambiamento, come il loro costituirsi, è una faccenda delicata.

Noi abitiamo sempre gli stessi luoghi e cerchiamo le tracce di come abitavamo.

Un’immensa forza simbolica hanno i luoghi e rappresentano anche la continuità delle esistenze. Sono la vita stessa. I luoghi sono noi e noi siamo i luoghi. E dal loro stato dipende il nostro benessere.

Ovvietà, ma ricordarlo non fa male a chi, per sentirsi vivo e al passo, deve rassomigliare a qualcuno o a qualcosa lontani.

Allora si genera dolore perché chi “è” non corrisponde a chi vorrebbe essere.

Quante volte abbiamo sentito: facciamolo anche noi perché a Barcellona fanno così e cosà, a Valencia, a Marsiglia, a Nizza. Un lungo elenco inverosimile. Come se noi non avessimo un passato, come se a noi non fosse necessaria la continuità con il come eravamo e, peggio, come se avessimo come unico futuro possibile l’imitazione, lo scimmiottamento di modelli non nostri.

Una malattia incurabile che ha conseguenze terribili.

Il colle di Castello a Cagliari rappresenta la città e in un certo senso tutta la storia dell’isola senza che per questo valga sentimentalmente più degli altri luoghi. D’altronde ognuno di noi ne possiede uno che segna la sua esistenza e la lega a quella di chi l’ha preceduto e di chi lo seguirà.

Il colle, si sa, ha due versanti, uno a oriente e uno a occidente.

Un progetto illegittimo di parcheggio interrato ne storpierebbe il lato a tramonto, però su questo c’è una discussione in corso.

Ma un altro progetto illegittimo come il primo ne ha modificato il lato che guarda all’alba. Oh, non si trascura nulla in questa città. Così sono apparsi sotto le mura orrendi campetti verdi di plastica e azzurri, pali altissimi con riflettori abbaglianti, una orribile costruzione che neppure finita ha iniziato a funzionare come bar. Tutto sicuramente illegittimo, visto che il Piano paesaggistico lo vieta con nettezza.

Continua a vincere l’urbanistica decisa dai barman. La filosofia della birretta che non può reggere nessuna città orienta le decisioni degli uffici. E i quartieri storici, vivi sino a qualche anno fa perché la gente, appunto, ci viveva, le scuole si animavano, le botteghe lavoravano, sono in via di trasformazione in un unico bar ristorante che si anima la notte.

I campetti sono una vetta di schifezza, frutto di menti urbanisticamente suggestionate da un’idea morbosa di modernità. Modernità scimmiotata, appunto. Lì, molto tempo fa, c’erano campetti, ma erano aggraziati, possedevano il pregio della leggerezza e quasi “dell’invisibilità”. E c’era perfino qualche albero. Poi diventò la squallida terrazza di un parcheggio. E ora sono un’offesa per le retine oneste.

E così, in pochi anni, i due lati del quartiere più simbolico della città potrebbero ridursi a una poltiglia inguardabile.

Lo squallore ordinato – anche le città sovietiche erano ordinate – spacciato come bellezza. Un’ondata di anonimo e mediocre perbenismo urbanistico.

Insomma c’è un disegno di città ridotta a tavolo di biliardo, mezza disabitata e mezza abitata da creature che imitano i rendering, con le strade uguali alle strade di tutto il mondo. Gli stessi lastroni di pietra uguali a Monaco e nelle vie del centro storico a Cagliari dove, pure, sotto l’asfalto c’era molto selciato da recuperare.

La passeggiata al Poetto identica a quella di Rimini, senza alberi, senza ombre e senza speranza. I chioschi bolscevichi. Un grande rendering vivente.

E i campetti sotto le mura sono coerenti con l’orrore trasformativo che si vede in giro.

Le Sovrintendenze rilasciano i nulla osta oppure li negano. E’ una loro funzione fondamentale. Possiedono e usano gli strumenti della tutela. Un compito che, per sua stessa natura, dovrebbe partire dalla difesa dei luoghi sino ai particolari, visto che i luoghi sono costituiti da un insieme e da una somma di particolari.

Una domanda alla Sovrintendenza: come si fa a mettere d’accordo il dozzinale intervento sotto le mura con il nostro piano paesaggistico che vieta ogni forma di intervento che non sia conservativo e proibisce ogni costruzione?

Ci si può impippare di una norma e rilasciare autorizzazioni? Beh, evidentemente sì. Almeno da queste parti.

Se una norma vieta qualsiasi modifica di un complesso paesaggistico – in questo caso del patrimonio irripetibile della rocca – allora è possibile solo la manutenzione e, parola sconosciuta in città, il restauro. Dunque quell’autorizzazione, se c’è, è illegittima. E dunque la “colpa” del Comune è relativa.

Perfino i bimbi definiscono un assurdo quei campetti. E alla domanda “ti piace?” un bambino ha risposto con la semplicità intelligente dei suoi dieci anni: i campetti si fanno da una parte e le cose antiche si lasciano in pace. Elementare.

L’amnesia delle regole, l’ignorare strumenti di civiltà come il Codice Urbani e il Piano paesaggistico conducono inevitabilmente alla distruzione di ogni bene e trasformano la nostra città in un luogo ordinario, uguale a mille altri luoghi. La perdita dei connotati, la scomparsa di ogni caratteristica, la nostra scomparsa come comunità, disciolti in una pappa uguale dappertutto.

La città, nata sul palmo di un dio, si imbruttisce e si perde.

Ma l’opera prosegue.

Le scalette di Santa Teresa costituivano un’unicità e imploravano da anni di essere curate e restaurate. Ora, con la pioggia di milioni per i lavori pubblici, avevamo immaginato proprio un’opera di restauro, di recupero dei basoli, dell’acciottolato, la conservazione del passato e la continuità. Chi mai toglierebbe la patina di antico da un mobile, da un quadro, da un gioiello o da un angolo delle nostre città? Noi viaggiamo alla ricerca dell’antico e ci commuoviamo di fronte a oggetti, opere, palazzi, edifici, manufatti carichi di reminiscenze.

Ma a Cagliari, dove le scalette – e chissà cosa ha risposto la Sovrintendenza alla scheletrica relazione paesaggistica del Comune – sono state sbrigativamente ritenute irrecuperabili mentre ci si camminava sino al giorno prima. A Cagliari non si restaura, si cancella. E le scalette settecentesche – una delle poche testimonianze dell’epoca dopo la distruzione recente di quelle di Villanova – saranno sostituite dal solito granito e dagli stessi tozzetti, ma proprio gli stessi, che si vedono in buona parte d’Europa. Tutto uguale a tutto.

Caro Sindaco, chiediamo in tanti e lo chiede anche Italia Nostra, di fermare i lavori nelle scalette e di trasformarli in restauro, una parola che stride alle orecchie delle nostre imprese. Chiediamo di rimuovere i campetti sotto le mura e di trasformarli in qualcosa di rispettoso per le stesse mura e per la rocca. Chiediamo un esempio di come si possa conservare e preservare, proprio come si fa nelle città che noi andiamo a vedere ammirati.

Salvaguardare è difficile, costa, il restauro è faticoso, richiede grandi conoscenze. E, come nella chirurgia, il restauro e la cura più belli sono quelli che non si vedono.

Sulla conservazione, oltretutto, si costruisce un’intera economia, si genera lavoro di qualità e si vive meglio dentro un mondo autentico nel quale ci si riconosce.

Chi camminerebbe tra le strade di Siena se le avessero ripavimentate gli ingegneri che si occupano di via Manno? Nessuno. Chi andrebbe a vedere le nostre rocche medievali sparse in tutto il paese se fossero state affidate a coloro che pavimentano le scalette di Santa Teresa? Nessuno.

Quella iniziata sulle scalette è la distruzione di un bene monumentale e chiediamo a chi ha la responsabilità di fermare questa devastazione, di riflettere sulla gravità e le conseguenze di quello che è stato fatto, di tornare indietro e di dare un esempio per il futuro della città che, grazie al lavoro di certi nostri avi, ancora possiede un patrimonio da amare e proteggere.

Sarebbe un segno importante e manterremmo la speranza di benessere restando noi stessi, senza patire cercando di essere quello che non siamo. Qualcuno, un grand’uomo, ha scritto che solo tornando all’antico si è moderni.

Cordiali saluti e auguri di buon lavoro,

Giorgio Todde

(Italia Nostra)

Foto di Chiara Caredda

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