Pastori bardaneris?
16 Settembre 2010Alfonso Stiglitz
Il Manifesto Sardo, fra i diversi contributi (Angioni, Carta) dedicati al problema pastorale, ne ospita uno come questo di Alfonso che torna a dare una lettura sui tempi antichi. Noi abbiamo criticato aspramente il fatto che la Sardegna voglia veicolare come sua immagine – pur nelle necessarie concessioni alla retorica emozionale – dati non corretti se non addirittura inesistenti, come è il caso di Atlantide. Ma anche il vecchio schema dei sardi pastori guerrieri soffre per lo meno di troppe approssimazioni, ed esse si sono cristallizzate in una maniera non storicamente veritiera.
Se i nuragici non erano presumibilmente pastori guerrieri (probabilmente pensarli così serve alla costruzione di un’immagine di ciò che vorremo essere oggi ed essere stati ieri), ma sedentari che avevano all’interno della loro organizzazione una componente pastorale forte, ma non centrale nel modo di produzione, neppure i celebri Galillenses – se non in una visione di comodo – sono i pastori bardaneris contro i latifondisti romani. Può darsi che una riflessione su tali, pur diversissimi, antecedenti, ci aiuti a costruire un’immagine del mondo sardo e di quello pastorale meno convenzionale e più aderente, anche nei nostri tempi. E a dedicare un’attenzione particolare, come suggerisce il fatto che sta dietro alla celebre Tavola di Esterzili, ai passaggi di proprietà. (M. Madau).
Le cronache di queste settimane hanno riportato prepotentemente all’attenzione dei mezzi di comunicazione il problema dei pastori, della loro realtà economica, ma anche culturale. Un gruppo sociale generalmente visto in termini pittoreschi che, improvvisamente, irrompe davanti a un’opinione pubblica distratta, come un insieme di persone moderne, a passo con i tempi, in grado di usare sapientemente i mass media. Eppure molti ancora li pensavano di pelli vestiti, secondo il cliché turistico che ormai pervade la nostra cultura, anche nel pensiero dei nostri legislatori regionali. Mi pare a questo punto utile tornare indietro nel tempo, a un’altra vertenza che vedeva protagonisti dei sardi, pienamente capaci di usare gli strumenti più aggiornati che la legge forniva loro; anche ad essi abbiamo affibbiato la patente di primitivi, violenti e mostrare come quel cliché, ancor oggi attivo, sia il frutto di una mentalità (auto)colonialista.
Il 13 marzo del 69 d.C. nella sede del governo provinciale, verosimilmente in piazza del Carmi-ne a Cagliari, scaduta la proroga concessa ai Gallilensi per produrre la mappa catastale che avrebbe provato la proprietà dei terreni contesi ai Patulcensi campani, il proconsole Lucio Elvio Agrippa pronunciò la sentenza che ordinava la restituzione di quei terreni. È, in sintesi, il contenuto della celebre Tavola di Esterzili, una lastra in bronzo larga 61 cm e pesante 20 kg, sulla quale è incisa una delle più importanti iscrizioni latine della Sardegna. Una iscrizione che ha avuto la sorte particolare di essere comunemente interpretata come manifesto della costante resistenziale sarda, dello scontro tra pianura e montagna, tra contadini e pastori, tra colonizzatori e colonizzati, tra civiltà e barbarie. E ovviamente i Gallilensi sono i montanari, i pastori, i resistenti che non possono muoversi se non violentemente, con le bardane, alla riconquista della “frontiera paradiso, le antiche terre perdute con l’occupazione punica e romana, come dice Giovanni Lilliu. Ma fu veramente così? I Gallilensi avevano effettivamente torto, occupando con la violenza (per vim) i territori dei Patulcensi? In realtà nell’iscrizione non c’è niente di tutto questo.
Decodificare le identità totalizzanti con un ritorno alla realtà storica concreta dei fenomeni, con l’utilizzo degli strumenti gramsciani, può portare alla rilettura di alcuni momenti topici, come quello rappresentato dalla Tavola di Esterzili. I Gallilensi, lungi dall’essere rozzi pastori, difendono le proprie ragioni in punta di diritto, richiamandosi più che a motivazioni ereditarie, gli antenati, a precise ripartizioni catastali frutto dell’azione di riorganizzazione effettuata dal pro-console Marco Cecilio Metello tra il 115 e il 111 a.C. In altre parole la Tavola, se letta con gli occhi privi di pregiudizi ideologici, ci sembra interpretabile non come il suggello della secolare lotta fra indigeni (Gallilensi) e romani (Patulcensi), fra pastori e contadini, fra montagna e pianura, ma come una controversia nell’ambito dei processi di riorganizzazione di aree economi-che marginali montane dotate di alcune risorse strategiche quali quelle minerarie. I Gallilensi, molto più concretamente, affermano che a Roma, nel tabularium sede del catasto, c’è la mappa che dimostra i loro diritti; va ricordato che la proroga scaduta era la terza concessa, in tre anni, a riprova dei dubbi presenti anche negli stessi magistrati. L’argomentazione, quindi, non era pretestuosa; probabilmente, fu un errore di archivio che ne impedì la dimostrazione, non più rimediabile dopo l’incendio che nel 69, anno della sentenza, distrusse il tabularium romano. L’immagine barbarica dei Gallilensi si arricchisce poi di altre sfaccettature con il richiamo, posto su un anello ritrovato a Cagliari, ai Lares Galillensium, gli antenati defunti che secondo le tradizioni romane proteggevano le famiglie, in questo caso i Gallilensi.
In effetti la scoperta della Tavola di Esterzili, effettuata nel 1866 alle pendici meridionali del complesso del Gennargentu nell’area nota storicamente come Barbagia di Seulo, ci fornisce alcuni indizi per chiarire le modalità della conquista dello spazio geografico in Sardegna da parte di Roma, non semplicisticamente in termini di mera conquista militare, ma anche, e soprattutto, in quelli di riorganizzazione amministrativa. In questo senso le forme dell’espandersi dello sfruttamento dei territori fertili e delle risorse, in primo luogo minerarie, produce forti elementi di tensione che conducono, da una parte, a episodi violenti e, dall’altra, a contenziosi giuridici, sublimazione dei primi.
In età romana, il territorio di Esterzili, dove risiedevano sia i Gallilensi sia i Patulcensi, non era uno spazio marginale a esclusiva vocazione pastorale, terra di sopravvivenza di gruppi nuragici ormai trasformati in predoni dediti alle bardane; al contrario era un’area densamente popolata, ricca di risorse, terreni atti a un’agricoltura anche avanzata, a un legnatico molto abbondante e a ricchi pascoli; a questi si aggiunge la presenza, in aree non distanti, di una risorsa strategicamente rilevante quale quella mineraria (Ferro, Rame, Piombo e Zinco).
Il quadro storico ci restituisce, in sostanza, la necessità di un diverso approccio; la visione deterministica che lega lo scontro tra Gallilensi e Patulcensi alla “naturale” ostilità tra pastori e contadini, tra montagna e pianura, svuota di significato e depotenzia le concrete cause storiche del conflitto che oppose i due gruppi, da identificare nell’imperialismo romano, accettando, in questo modo, la visione colonialista degli storici romani, per i quali gli abitanti delle montagne sono alieni alla civiltà. Una formazione politica, economica e militare nella quale la riorganizzazione, anche giuridica, del territorio appare funzionale agli interessi di Roma e nella quale i gruppi di subalterni, locali o meno, quali erano i Gallilensi e i Patulcensi, vengono utilizzati e contrapposti con precise finalità geopolitiche per il controllo delle risorse strategiche.
In sostanza, è possibile che i Gallilensi avessero più di una ragione per affermare il loro reale possesso di quei terreni. La distribuzione degli insediamenti non fa difficoltà a posizionare i Patulcensi Campani nello stesso territorio di Esterzili come i Gallilensi, destrutturando la opposizione pianura-montagna, pastori-contadini. L’immissione in queste zone di frontiera di genti italiche, quali paiono essere i Patulcensi, rientra bene in quei meccanismi di colonizzazione dell’area provinciale romana in un momento nel quale probabilmente si rese necessario un con-trollo più stretto di alcune risorse strategiche. O, più semplicemente, si imponeva la necessità di cedere ad appaltatori privati aree di interesse economico, la cui ubicazione in zone di confine le rendeva particolarmente sensibili, anche a seguito delle crisi derivanti dalle operazioni di re-pressione militare propedeutiche alla catastalizzazione del territorio.
Il passaggio dal dato letterario a quello archeologico, l’uso in altre parole della “filologia” di gramsciana memoria fa emergere i limiti di un’indagine basata su modelli ideologici e fa riemergere la storia dei gruppi subalterni della Sardegna, all’interno dei quali potrà riconoscersi l’inizio del processo che li vide poi, in parte, protagonisti agli albori della storia giudicale. Lega-re gli eventi di cui abbiamo parlato all’interpretazione storica deterministica è il modo migliore per togliere a quei gruppi la loro storia e le loro potenzialità politiche. Proprio quello che il colonialismo fa normalmente.
La lettura citata è:
G. Lilliu, La costante resistenziale sarda, Nuoro, Ilisso, 2002, scaricabile gratuitamente dal sito della regione Sardegna: http://www.sardegnadigitallibrary.it/