Sulla faccia della terra
20 Aprile 2015Antoni Arca
“Sulla faccia della terra” è l’ultimo romanzo pubblicato da Giulio Angioni (Maestrale-Feltrinelli, 2015), e mi chiedo perché leggerlo e perché consigliarlo ai miei contatti facebook.
Il motivo per cui l’abbia voluto leggere io è semplice: conosco personalmente Giulio Angioni da anni e ne ho sempre apprezzato l’opera, sia quella dell’antropologo sia quella del narratore. Per un certo periodo abbiamo perfino condiviso lo stesso editore (la EDES, prima di Cagliari e poi di Sassari).
Quindi io debbo leggerlo perché sì, come ho fatto con piacere dai tempi dei racconti di “Sardonica” e “di A fogu aintru” e con crescente ammirazione da “L’oro di Fraus” in poi, e continuando negli anni fino al libro di questo 2015.
Perché dovrebbe leggerlo chi non ha studiato col professore di antropologia culturale Giulio Angioni, o chi è troppo giovane per riconoscersi nella Sardegna ancora contadina degli anni ’50 e ’60 e delle lotte sindacali guidate da giovani comunisti un po’ ingenui, molto onesti e troppo puri per questo mondo?
Perché Giulio Angioni è un bravo romanziere, perché è il capostipite di quella scuola letteraria sarda che negli anni è andata formandosi e oggi trova in Flavio e Paola Soriga, in Alessandro Deroma e Alberto Capitta i migliori e (in)consapevoli continuatori. Continuatori, ho scritto, non imitatori, che quella è un’altra storia.
Nei racconti di Angioni c’è sempre una Sardegna Mondo, non chiusa, come in Grazia Deledda, ma aperta su se stessa. La Sardegna come un pezzetto del Mondo che in sé tutto il Mondo spiega e contiene. I suoi protagonisti non sono prigionieri delle tradizioni, non sono figurine da esibizione folcloristica a favore del prossimo pullman di turisti, ma anime in grado di comunicare pensieri vitali utili tanto ai sardi quanto agli europei, agli asiatici e agli alieni il giorno che decidessero di visitarci.
Da antropologo, il narratore presenta i suoi personaggi in tutte le loro specificità e li racconta dal di dentro, accompagnando il lettore all’interno di situazioni emblematiche da cui si potrà uscire solamente capendo il contesto in cui quelle anime sono state calate, per una pura casualità della storia.
In “Sulla faccia della terra” c’è tutto il mestiere e tutto il cuore di Giulio Angioni. Il cuore perché ne riconosciamo percorsi e problematiche, il mestiere perché ha saputo trasformare un romanzo storico in un piccolo fantasy politicamente progettuale (volevo dire gramsciano).
Per chi non conosca la storia giudicale della Sardegna, e in particolare quella del giudicato di Cagliari, i fatti narrati somiglieranno più alla fantastoria che alla realtà storica, ma non importa, il libro funziona lo stesso, perché come ogni racconto storico, serve a comprendere meglio l’oggi.
E quindi il romanzo cattura sia il lettore sardo, sia quello non sardo; anzi, chi non sappia nulla della storia della Sardegna ci entrerà molto meglio, perché non gli verrà voglia di chiedere conto ad Angioni di alcune “licenze” storiche.
A questo punto, dire di che parli il libro in termini di plot è un di più, per cui lo farò nella maniera più asettica possa riuscirmi: a causa di una guerra cruenta i pochi sopravissuti di una città ridotta in macerie si rifugiano nella piccola isola contaminata al centro di uno stagno. Col tempo arriveranno ad essere una trentina di individui provenienti da Sardegna, Italia, Europa, Asia. Mischieranno lingue, saperi, culture, tradizioni e impareranno a vivere e prosperare in pace. Ma la prosperità porta benessere e il benessere spinge al commercio e i distruttori dell’antica città distruggeranno anche l’isola, non più contaminata dall’infezione, bensì da un progetto di vita pienamente democratico.
Ogni cosa è accaduta, realmente nella narrazione, realmente nella Sardegna del 1258, e ogni cosa è stata interrotta, distrutta, cassata dalla società (neo)feudale, e ne abbiamo contezza, perché a dirci ogni cosa è un testimone dei fatti intervistato 70 anni più tardi da qualcuno con la vocazione dell’antropologo.