Superare il tunnel
16 Luglio 2009Marco Ligas
Le decisioni dell’Eni di abbandonare il petrolchimico di Portotorres confermano l’inganno con cui il Governo e i dirigenti locali del PDL hanno condotto la campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio Regionale. Nessuno degli impegni assunti per il mantenimento dei livelli occupativi è stato rispettato. Non ha provveduto Putin, non provvede l’Eni, non provvedono le aziende che preferiscono investire altrove anche quando in Sardegna è possibile ricavare degli utili. Siamo davanti all’ennesima dimostrazione di arroganza e di cinismo di un Presidente del Consiglio abituato a considerare con disprezzo i diritti e i bisogni di chi lavora.
Si aggravano così le condizioni economiche di migliaia di famiglie e al tempo stesso la Sardegna rischia di entrare in un tunnel da cui sarà difficile uscire. È una situazione che impone a tutte le forze democratiche l’assunzione di un impegno perché questo disegno venga sconfitto. La battaglia degli operai di Portotorres segna uno spartiacque tra chi vuole la crisi definitiva del petrolchimico e chi, invece, vuole mantenere aperti dei varchi che consentano alla nostra regione il mantenimento di una struttura industriale indispensabile. Per queste ragioni il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali, delle forze politiche e di tutti i cittadini che intendono difendere la democrazia deve essere prioritario e raggiungere livelli di ampia mobilitazione.
Le difficoltà che si incontrano quando c’è da difendere l’occupazione vengono da lontano: già si verificavano quando era in vita una sinistra più reattiva di quella che abbiamo oggi. Nonostante i suoi propositi fossero ben diversi, la stessa Regione non ha favorito la creazione di una struttura industriale che valorizzasse le risorse locali e al tempo stesso legasse lo sviluppo al territorio. Spesso le lotte operaie hanno avuto un carattere difensivo, ci si batteva perché le aziende, anche quelle insediate più recentemente, non interrompessero le attività. Ciò avveniva nonostante la Regione abbia sempre contribuito con cospicui finanziamenti alla loro nascita. La minaccia dei licenziamenti è stata una spada di Damocle che ha condizionato le politiche sindacali. Raramente, all’interno delle fabbriche, i sindacati sono riusciti ad imporre obiettivi che affrontassero questioni come l’abolizione degli appalti, il rispetto delle norme di sicurezza o la tutela dell’ambiente. E non è un caso che sempre più frequentemente, all’interno della stessa azienda, lavoratori con le stesse mansioni ricevessero salari diversi a causa dell’appartenenza ad imprese d’appalto differenti; così come non è casuale che diverse aree della nostra isola siano diventate delle discariche a cielo aperto.
Oggi le difficoltà e i disagi conseguenti a queste politiche sono ingigantiti. Non c’è un’area della Sardegna che non sia colpita dai licenziamenti, dalla cassa integrazione e dalla mancanza di prospettive. La disoccupazione ha ripreso la sua crescita raggiungendo o avvicinandosi a percentuali preoccupanti (13%-15%). La crisi mondiale alimenta questa tendenza, tanto è vero che anche alcune aziende che godono buona salute lasciano l’isola per spostarsi laddove il costo del lavoro è più basso.E tuttavia è necessario ripartire dalla rivendicazione di un intervento pubblico per avviare la ripresa del sistema produttivo: servono nuovi finanziamenti perché non vengano chiuse le fabbriche e perché vengano bloccati i licenziamenti. Per evitare che si ripetano gli errori del passato sarà opportuno piuttosto vincolare il sostegno pubblico imponendo alle imprese due condizioni fondamentali: la difesa dell’occupazione e la tutela dell’ambiente. Non deve essere più consentito che qualsiasi imprenditore riceva finanziamenti pubblici senza dare conto delle sue attività, senza garantire livelli adeguati di occupazione e senza tutelare l’ambiente di lavoro. Si tratta di due condizioni fondamentali: le hanno poste con estrema determinazione i lavoratori che hanno partecipato allo sciopero generale del 10 luglio. Bisogna ribadirle nella prosecuzione della lotta per evitare, come suggeriva un nostro lettore nel numero precedente del manifestosardo, che i 1.500 lavoratori di Portotorres possano diventare rapidamente 15.000.
Bisognerà inoltre fare buona guardia perché l’isola non diventi ricettacolo dei nuovi impianti nucleari, magari in cambio di promesse di nuova occupazione. La Sardegna non deve diventare merce di scambio per assecondare le decisioni speculative di un governo incapace di realizzare una sana politica energetica.