Takoua Ben Mohamed, attivista dell’immaginazione
17 Agosto 2015Roberto Loddo
23 anni, inchiostro e velo: Takoua Ben Mohamed è una graphic journalist e sceneggiatrice, tunisina di nascita ma cresciuta a Roma, disegna e scrive, anche con ironia, storie a fumetti. I suoi temi spaziano dalla primavera araba al ruolo delle donne rivoluzionarie durante la dittatura di Ben Alì, passando per la lotta all’islamofobia, al razzismo e alla difesa dei diritti umani nei paesi in guerra.
Specializzanda in accademia di cinema d’animazione alla Nemo Academy of digital arts di Firenze, Takoua Ben Mohamed sarà a Cagliari per la mostra #WomanStory all’ExArt dal 15 al 24 ottobre, una mostra inserita all’interno di Nues 2015 fumetti e cartoni nel mediterraneo in collaborazione con Progetto SPRAR “Emilio Lussu” della Provincia di Cagliari e gestito dall’Associazione Cooperazione e Confronto della Comunità La Collina, dall AssociazioneEfys Onlus, da Typos Studio Editoriale. Oggetto della sua mostra sarà il fumetto intercultura, strumento di promozione del dialogo culturale che ha fondato all’età di 14 anni. Un progetto che nel corso degli anni ha avuto un grade successo mediatico, in quanto è stato presentato al TEDx a Matera, Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia, Camera dei Deputati, Next Repubblica delle idee, Festival Ottobre Africano, Colleggio Universitario di Villa Nazareth e molte università italiane e argentine, ricevendo un riconoscimento ufficiale anche della Repubblica Tunisina.
Esiste una galassia di oganizzazioni umanitarie impegnate ogni giorno in opere di sensibilizzazione e informazione contro i pregiudizi e il razzismo. È curioso che tu lo faccia attraverso la tua immaginazione. È davvero possibile combattere gli stereotipi a colpi di matita?
Sai, anche io pensavo che non fosse possibile all’inizio. Quando ho iniziato questo percorso durante la mia adolescenza non sapevo dove mi avrebbe portata, ma l’ho intrapreso comunque, per passione e per attivismo in associazioni umanitarie, giovanili, culturali. A 14 anni ho trasformato il mio attivismo nel “fumetto intercultura” che mi ha portata oggi a credere più che mai che sì, è possibile combattere gli stereotipi a colpi di matita.
Una matita che attraverso la ragazza con il velo ha prodotto una forma giornalismo partecipativo che vede la partecipazione attiva dei tuoi lettori.
il graphic journalism in particolar modo, è una forma di citizen journalism, che racconta la realtà attraverso una forma innovativa di giornalismo dell’arte visiva, con un linguaggio semplice e diretto, che porta il lettore ad avere più empatia tra i protagonisti e la storia del fumetto, e quindi di immedesimarsi con il personaggio principale, nel mio caso la ragazza con il velo (o altri personaggi secondari). Le parole della ragazza con il velo hanno una narrazione diretta, lei “parla attraverso ciò che dice” e non attraverso “ciò che viene detto su di lei”. A tutti piacciono i fumetti, un linguaggio universale che mette in connessione culture, lingue, fasce d’età e ideologie diverse. I fumetti restano nel tempo, talvolta più di un articolo di giornale.
Oltre alle illustrazioni sulle questioni del velo, della libertà di pensiero e della primavera araba, la narrazione delle tue storie è anche autobiografica.
Certamente, il graphic journalism è soprattutto basato sull’esperienza personale dell’autore, i protagonisti dei fumetti sono gli stessi autori. Ho voluto raccontare e trasmettere ciò che abbiamo vissuto io e altri durante la dittatura di Ben Alì, essendo parte di una famiglia oppositrice alla dittatura. Io racconto storie di persone che son state incarcerate e torturate, storie di persone esiliate per aver espresso idee di libertà, storie di opposizione e rivoluzione fino ad arrivare alla primavera araba e al ritorno dopo anni di esilio.
C’è sempre un momento in cui un fumettista capisce che quello sarà il suo lavoro. Quando ti sei avvicinata al graphic journalism?
In realtà disegno da sempre, durante le scuole medie i miei genitori mi consigliavano di entrare al liceo artistico, ma io mi rifiutavo categoricamente. Ho fatto di testa mia e infatti durante le superiori ho studiato altro, da chimico biologico a ragioneria. Con l’appoggio della mia famiglia che ha creduto in me, ho capito che il fumetto sarebbe stato quello che volevo fare per il resto della mia vita. Negli eventi culturali organizzati dalle associazioni dove ero attiva, ho incontrato professori universitari e giornalisti che ancora oggi continuano a darmi il loro sostegno. Avevo 14 anni quando ho esposto la mia prima storia “me and my hijab” in un evento culturale organizzato da una piccola moschea a Roma. E poi durante le scuole superiori, nel tempo libero, studiavo da autodidatta arte, fumetto e sceneggiatura. Ho fatto corsi di giornalismo e molti master di character e concept design con professionisti delle grandi produzioni mondiali di animazione.
La tua appartenenza a più culture e ad una famiglia di attivisti ha segnato profondamente la tua formazione, fin da adolescente.
Ovviamente durante la mia adolescenza ho vissuto la mia crisi adolescenziale in pieno come ogni altro adolescente sulla faccia della terra. Ma per me l’attivismo è sempre stato l’elemento della mia vita che veniva prima di tutto, una cosa che mi ha trasmesso la mia famiglia. Ho iniziato ad essere attiva nel sociale a 10 anni, imitando i miei fratelli più grandi (sono la sesta di sette figli) e i miei genitori. Mi facevano fare piccole cose, ma erano cose grandi ed importanti per me, perché mi facevano sentire in qualche modo utile. Un percorso di formazione all’attivismo che mi ha fatto conoscere le persone e le loro storie. Ho imparato a condividere la mia storia e la mia esperienza, ed in fine ad avere un bagaglio culturale ed un’apertura mentale.
L’illustrazione alla quale sei più affezionata.
Sono affezionata a tutte, sono tutte pezzettini di vita vissuta, sentimenti e incontri. Forse i lettori lo percepiscono meno rispetto le circostanze in cui ho scritto quella storia e dove e con chi l’ho vissuta. Sono tutte importanti per me.
Il lavoro dell’illustratore è fatto anche di contaminazioni che ispirano e influenzano gli stili. Quali sono i tuoi grandi maestri?
Ho imparato dai giapponesi, dagli americani e dai francesi, finchè non ho trovato il mio stile personale che sto costantemente cercando di rafforzare. Mi piace la semplicità, nel linguaggio e nelle illustrazioni. Apparentemente sembra facile semplificare il proprio stile di illustrazione e di sceneggiatura, ma dietro questa semplicità ci sono anni di esercitazioni e studio. È uno degli stili più complicati da adottare, ma è anche il più efficace. Da uno stratosferico scarabocchio si arriva a lasciare solo l’essenziale. Dei graphic journalist che mi hanno ispirato c’è Joe Sacco, e poi anche Guy Delisle, Marjane Satrapi e molti altri. Del cinema d’animazione invece i film dello Studio Ghibli.
Una brava graphic journalist deve essere anche un buona lettrice. Quale libro stai leggendo?
Ora sto leggendo dei libri tecnici sulla sceneggiatura e uno sul cinema di Hitchcock. E sto per iniziare alcuni libri di Tariq Ramadan, un sociologo e professore della Oxford University.
Parliamo dei tuoi progetti futuri, a cosa stai lavorando in questo momento?
Attualmente sto lavorando su due libri a fumetti, uno su terrorismo, giornalismo ed islamofobia e l’altro sulla rivoluzione e la dittatura in Tunisia. E spero che una volta finiti, dopo la mia specializzazione all’accademia di cinema d’animazione, diventino dei film.
*Foto di Ben Mohamed Ali