Terra d’approdo
1 Maggio 2011Marcello Madau – Joan Oliva
Joan ci affascina di nuovo – dopo i suoi scritti per il Manifesto Sardo – con un altro libretto, 125 pagine avvolte da carta da pacchi da 100g, dove viaggia fra toponimi e luoghi, approdi algheresi e antiche terre di migranti. La scrittura guidata dal sogno insegue i nomi perché evocano storie, e ogni nome è un approdo. Un andare per rotte marine, pieno di sofferenza eppure di speranza.
Cosa significa Alghero? Terra di approdo. E tante altre cose. E il segnale forte di S. Imbenia, luogo di arrivi, soste e partenza. Dove vennero fenici, forse greci, forse palestinesi antichi, o filistei, presupposti nelle tracce epigrafiche e nelle forme ceramiche. Non ancora, pur talora segnalati, i micenei. Ma con approdi così, nulla si esclude.
E’ un paesaggio che ci prende; chi conosce l’Alguer può capire, non lo dimentica.
Joan è un viaggiatore, fra donne uomini e luoghi. Si batte da sempre per le persone e per il paesaggio, che assieme stanno e condividono diritti comuni legati indissolubilmente a quello di esistere, e con dignità.
Ci dice subito che la vacanza è un’altra cosa, con la prima frase del suo Pre Post: “Non ci sono sulla terra spazi destinati dalla natura a diventare luoghi di vacanza.” Non dovremo mai dimenticarcelo.
Joan ci fa due regali: il primo nel concederci di pubblicare uno stralcio del suo ‘Terra d’approdo’; il secondo nel mettercene a disposizione per un incontro pubblico 50 copie, e destinare i fondi al Manifesto. Ma ora leggiamo una parte del suo ‘capitolo’ 5. (m.m.)
“Terra d’approdo, terra del mezzomarinaio o del gancio d’accosto: il luogo si sarebbe meritato questo titolo, forse proprio per la forma della piccola penisola su cui sorge la parte più antica del suo abitato (non più antica di mille anni e, in verità, assai più giovane dei cento e più nuraghi di cui si trova traccia nel suo territorio, testimonianza di un insediamento preistorico assai differente per modalità e quantità).
La penisoletta a forma d’uncino, uno dei due salienti fisiografici di antichissima roccia calcarea (l’altro è Punta del Gal su cui sorge la metafisica borgata di Fertilia), piccoli promontori, forti e resistenti ai marosi, che hanno fatto da protezione e termine all’ampio arco del litorale sabbioso della rada di Alghero, consentiva, già agli albori dell’insediamento storico, prima di ogni opera portuale, un pur modesto riparo per le imbarcazioni.
È vero, un’altra versione del toponimo farebbe pensare semmai al contrario. Larger o Larguer (si legge Largher, e si trova in alcune vecchie carte), suona infatti come un avvertimento, un grido disperato lanciato, in passato, da naviganti provenzali o liguri, di fronte alle secche che circondano per due lati la penisoletta che protegge e nasconde l’approdo: Largher! Allargare! Stare alla larga! E che varrebbe anche nel caso il toponimo volesse dire “approdo facile”, troppo facile. Lido ingannatore.
Alghero è in effetti quasi una trappola, un luogo dove ci sono molte probabilità di far naufragio.
…rari nantes in gurgite vasto.
Sbattuti dalle onde sugli scogli taglienti della costa o, come le foglie di posidonia, spiaggiati, arenati nella sua sottilissima e soffice sabbia bianca o inghiottiti nel fango delle acque stagnanti della sua laguna: il Calic (la peschiera). Costretti a bere un calice salmastro. E lo sgomento, mitigato da mille consolazioni, prende chi vi ha fatto naufragio e da sopravissuto, vi si ferma a vivere per il resto della vita, segnando con questa fortunata sventura, anche la sua progenie.
Come aveva detto uno dei suoi migliori figli adottivi, Antoni Simon Mossa: “Chi ti ha conosciuto una volta non potrà mai più distaccarsi da te.”
Al ghâriq (الغربق), l’espressione araba che sta per “il naufrago”, potrebbe forse essere all’origine del toponimo Alghero e questo potrebbe quindi significare qualcosa come “Terra del naufrago”? Riva salvifica, approdo della buona sorte.
Port Salve, proprio così si chiama la banchina portuale di fronte all’ingresso alla città antica. E anche il Cristo ligneo che qui si venera, è approdato dopo aver fatto naufragio in questo mare. Icona del migrante, figlio dell’uomo, familiare con il patire, senza vita, morto annegato nell’attraversata della speranza. Simulacro muto (e forse per questo particolarmente caro a tutte le autorità), ridotto a risorsa turistica della “città sexy” a luci rosse. I signori del luogo lo seguono, schierati in prima fila, nelle lugubri messinscena.
La vittoria della vita sulla morte è altrove: là dove approdano altri figli dell’uomo, sopravvivendo al naufragio. Rinascendo “clandestini”.
“Endrera de l’escoll la marina és sempre calma” . Questo detto sintetizza bene l’attitudine degli algheresi: una volta approdati, non amano più avventurarsi in mare aperto. Lo fanno, e in passato lo hanno fatto in condizioni ancora più rischiose e su imbarcazioni piccole e insicure, solo per necessità, non per il piacere di affrontare le burrasche e per sfidare vanamente il mare.
Nello stesso nome del luogo si cela forse la ragione di questa estrema prudenza: in greco antico il termine σαλος (salos) ha il significato di “burrasca” ma anche “mare aperto” e χερας (cheras) ha il significato di “vedova”. Il toponimo derivato, che suonerebbe Salichera, potrebbe essere traducibile quindi: “luogo delle vedove del mare aperto”, interpretazione che potrebbe reggere se poi si considera che proprio di fronte alle coste algheresi, in prossimità del gorgo o centro geometrico del Mediterraneo, come è rappresentato nell’antica “Carta Pisana”, al largo di Capo Caccia, si incontra la Seca de las viudas (la Secca delle vedove), una sorta di limite invalicabile per le modeste imbarcazioni dei pescatori locali. Terrore delle loro mogli, vero e proprio incubo dei loro bambini.
“Poltronissimi al mare” aveva definito gli algheresi un autore del settecento, commentando il fatto che non fossero dediti alla principale attività di pesca, che si svolgeva su queste coste, ossia la pesca, o per dire più propriamente, l’“estrazione” del corallo.
Alghero, si badi bene, in effetti non è un “villaggio di pescatori” divenuto “città di mare”. Fin dalle sue origini documentate, si configura piuttosto come uno snodo, un insediamento alla confluenza di molte vie, di terra e di mare, punto di arrivo e di partenza di uomini e merci. Verso questo approdo convergevano le strade che, dal produttivo entroterra logudorese, conducevano alla costa e da qui si ripartivano le rotte, invisibili vie che attraversavano il Mediterraneo e conducevano verso altri porti.”