ThyssenKrupp e le privatizzazioni all’italiana
1 Maggio 2014Loris Campetti
Il pugno in faccia ai parenti delle vittime della strage targata ThyssenKrupp è arrivato alla vigilia della giornata mondiale per la salute e la sicurezza sul lavoro. Dopo 7 anni di attesa, tanti quanti gli operai arsi vivi nel rogo dello stabilimento torinese del dicembre 2007, la sentenza della Cassazione suona come una beffa amara, ordinando la ripetizione del processo e negando la volontarietà dell’omicio compiuto dai vertici del gigante tedesco dell’acciaio.
Né verità né giustizia, e ora ci vorrano altri anni ancora prima che i colpevoli della strage finiscano in galera, come dal 2007 chiedono le parti lese e l’opinione pubblica. Sempre che nel frattempo non arrivi la prescrizione, rischio che però la stessa sentenza e i chiarimenti successivi della Cassazione sembrerebbero fugare. Sentenza che costituisce un precedente che potrebbe influenzare negativamente i molti altri processi in corso o in allestimento in relazione alle quotidiane stragi di lavoratori. Ogni anno in Italia un migliaio di operai muore sul lavoro – il leggero calo è legato al crollo delle ore lavorate per effetto della crisi – senza contare i feriti e le vittime di malattie professionali. Come all’Eternit, solo per richiamare il caso più noto ed eclatante.
Non ci fu volontarietà, anche se curiosamente la Corte riconosce che l’omicidio derubricato a colposo è aggravato da “colpa cosciente”: dunque gli otto dirigenti ThyssenKrupp sapevano che l’abbandono delle norme di sicurezza avrebbe potuto provocare incidenti gravissimi. È appurato il nesso tra la decisione del gruppo tedesco di mettere i sigilli allo stabilimento siderurgico torinese e la progressiva riduzione delle condizioni di sicurezza: tanto si chiude, inutile spendere soldi, è la logica criminale emersa dai documenti raccolti nel corso dell’inchiesta guidata dal procuratore Raffaele Guariniello, da cui è scaturita l’accusa di omicidio volontario, oggi derubricato.
Fu una strage terribile, consumata in un attimo ma allungatasi nell’agonia degli operai ustionati che per settimane hanno lottato tra la vita e la morte. La ripetizione del processo è motivata dalla Cassazione con la necessità di ridefinire le pene per i colpevoli dei sette omicidi. Alla rabbia dei familiari si aggiunge l’amarezza del dottor Guariniello: fa riflettere il fatto che a un’inchiesta svolta con professionalità e rapidità abbia fatto seguito un iter giudiziario infinito, fino alla beffa della Cassazione.
Ma Guariniello non demorde, e tenta di utilizzare gli spiragli lasciati aperti dalla Cassazione che comunque dichiara “irrevocabili” le parti della precedente sentenza di condanna “relative alla responsabilità degli imputati”, e che riconosce per la prima volta che “la rimozione delle cautele infortunistiche deve essere considerata come reato a sé stante”. I reati appurati sono dunque due, e ciò potrebbe consentire un aumento degli anni di condanna, oltre gli 8 o 10 comminati in secondo grado di giudizio.
Il dramma della ThyssenKrupp non è che un anello nella catena della dismissione traumatica della siderurgia italiana. La scorsa dettimana gli operai di Piombino sono stati colpiti, dopo anni di lotta per il lavoro e la bonifica degli impianti inquinanti, dalla chiusura dello stabilimento toscano. Questa non è che l’ultima conseguenza della più suicida tra le privatizzazioni all’italiana: quella dell’acciaio. Negli anni Novanta lo Stato ha smobilitato la siderurgia regalando di fatto l’Ilva ai privati, in gran parte a Riva e per la parte restante, l’impianto di Piombino, a Lucchini.
A Taranto la famigerata famiglia Riva ha trasformato il più grande stabilimento europeo dell’acciaio in una gigantesca camera a gas per duecentomila abitanti, dopo anni di profitti raggranellati sulla pelle di 12 mila lavoratori e sulla salute dei cittadini falcidiati dalla diossina, dalle polveri sottili e dai metalli pesanti che hanno inquinato il mare, il terreno, l’aria e avvelenato armenti, pesci e frutti di mare. Profitti garantiti grazie all’evasione delle direttive ambientali e delle ordinanze dei giudici che impogono la bonifica degli impianti. Gli utili così realizzati sono stati sottratti al fisco e dunque alla collettività dalla loro fuga nei paradisi fiscali, fin nelle Antille olandesi.
Ora lo stabilimento di Taranto è commissariato e per i Riva e i loro dirigenti, per troppi amministratori e politici compiacenti è in preparazione un megaprocesso, mentre l’Italia rischia pesanti sanzioni da parte dell’Unione europea per inquinamento. L’unico modo serio per affrontare il doppio problema ambientale e occupazionale sarebbe l’avvio di una straordinaria bonifica dell’impianto e del territorio, possibile soltanto con l’assunzione di responsabilità e l’acquisizione della proprietà, sia pur transitoria, da parte dello stato. Operazione che ha costi altissimi, ma i soldi ci sono: i profitti di Riva che andrebbero confiscati subito, come prevede la Costituzione, e utilizzati per la bonifica. Una strada che nessuno degli ultimi governi ha voluto percorrere, in nome della libertà assoluta della proprietà privata.
Anche Piombino, dopo un lungo e avvelenato declino industriale, oggi è commissariata: prima passata dallo Stato nelle mani di Lucchini, altro bellimbusto del capitalismo italiano, da questi spolpata e venduta ai russi che dopo poco l’hanno ceduta alle banche creditrici per un euro e che, a loro volta, l’hanno riconsegnata in condizioni penose alla collettività: poco più di un ammasso di ferraglia, quel che resta senza l’opportuno ammodernamento di un impianto responsabile anch’esso dell’avvelenamento degli operai, dei cittadini e del territorio. Per non chiudere, Piombino avrebbe bisogno di danaro fresco per l’acquisto di navi di rottami con cui riavviare momentaneamente i forni. Soldi che il commissario governativo non intende mettere a disposizione, così come non intende investirli per l’ambientalizzazione e/o la riconversione della produzione dello stabilimento toscano.
*Questo articolo sarà pubblicato sul prossimo numero di Area, quindicinale svizzero di critica sociale e del lavoro
*nell’immagine: Morire di lavoro alla Thyssenkrupp – Rossetto Luigi