Tialla arrubia. Tradizione e qualunquismo gastronomico
16 Marzo 2019[Piero Careddu]
Con il nuovo numero 280 del manifesto sardo inauguriamo Tialla arrubia, una nuova rubrica di enogastronomia critica a cura di Piero Careddu cuoco, ristoratore, scrittore di vino e cucina (red).
Un sabato mattina di qualche anno fa, durante un aperitivo pre-natalizio al Mercato Civico di Sassari, avevo preparato una pasta e fagioli profumata da una decisa presenza di zenzero, spezia che amo particolarmente per la grande capacità di dare freschezza ad ogni preparazione. Tra il pubblico, accorso numeroso e felice di scaldarsi con quella zuppa bollente, c’era una conosciuta figura accademica che con aria perplessa mi chiese: “Scusa, l’hai fatta tu la pasta e fagioli?” – ” Si, professoressa sono io il colpevole. Non le piace?” – “Si, già mi piace. Ma pensavo che tu fossi un cultore della tradizione sarda. Spiegami cosa c’entra lo zenzero con la nostra cucina” – “Professoressa mia, lei che è donna di cultura, sono certo è al corrente che pomodori, cioccolato, caffè e molti altri prodotti sono apparsi in questo pezzo di Occidente, dopo il ritorno di Colombo dalle Americhe” – “E quindi….?” – “E quindi le merci appaiono e scompaiono nella storia dell’umanità, grazie agli spostamenti di uomini e culture che fanno evolvere le tradizioni. Tradizioni che cambiano e si arricchiscono di profumi e sapori nuovi”.
Mi sono sono servito di questo siparietto per introdurre alcune riflessioni sulla interminabile querelle fra tradizionalisti e innovatori nelle cucine regionali. Mi imbatto spesso in scrittori professionisti dell’argomento e in cuochi più o meno famosi che si trovano ad affermare tutto e il contrario di tutto. Effettivamente la confusione in materia è tanta ed è aiutata dall’immagine distorta, della cucina e della figura del cuoco, che la televisione ha creato tra la gente. I talent di cucina hanno innescato dei meccanismi che, ancora oggi, stanno facendo danni incalcolabili soprattutto per quanto riguarda la salvaguardia delle identità enogastronomiche dei popoli. Se è vero, come è vero, che mangiare e far da mangiare a qualsiasi livello, è un atto profondamente politico, l’operazione disinformativa dei mass media ha creato e alimenta pericolose forme di qualunquismo enogastronomico.
Credo che il modo di fare vino oggi in Sardegna, per esempio, sia quanto di più emblematico a tal proposito: la ricerca della tipicità e del racconto di un territorio che un vino saprebbe dare, sono spesso mortificati da una deriva tecnicistica, e poco attenta all’ambiente, che offre ad un mercato drogato vini omologati e scimmiottature di altre realtà modaiole sparse per il mondo. Basterebbe prendere come esempio i tre vitigni sardi più conosciuti nel mondo: Vermentino, Cannonau e Carignano che danno alla luce molto frequentemente, prodotti che poco hanno a che vedere con la nostra storia e col linguaggio unico che il nostro terroir sarebbe in grado di esprimere. Imbattersi in “grandi” rossi che sono la più o meno riuscita fotocopia di vini toscani o bordolesi è sempre più frequente.
Spostando il ragionamento alla cucina e alla ristorazione troviamo una situazione pressoché speculare: sembra non esista una via di mezzo tra il folklorismo di finte trattorie e agriturismo, che propongono all’infinito i dieci collaudati piatti evergreen, e ristoranti per pochi eletti che praticano una ricerca , spesso fine a se stessa, che ha come obbiettivi principali stupire i propri clienti e il riconoscimento delle guide gastronomiche. Sono le due facce della medaglia di un decadimento culturale e dello stato confusionale di cui parlavo all’inizio.
Eppure uscire da questa impasse non dovrebbe essere un’impresa impossibile se consideriamo che la nostra isola, per quanto vittima di devastazioni ambientali in larghe aree, possiede ancora un giacimento di materie prime e una galassia di culture culinarie che ne fanno un vero e proprio continente. Quello che sfugge ai soloni del giornalismo di settore, e ancor peggio a troppi ristoratori, è che i punti fermi dai quali è impossibile scappare sono l’eccellenza della materia prima, la stagionalità e il territorio. Aggiungo che fare cucina regionale e rinnovarla ha bisogno di studio e di conoscenza profonda, innanzitutto della storia della nostra isola, e di ricerca costante delle cucine dimenticate. Altrimenti si fa la fine di quelli che decidono di mettersi a dipingere e partono direttamente dall’astratto, senza alcuna nozione di figurativo, prospettiva, uso del colore.
Due parole sul modo di cucinare e mangiare del cittadino medio, dei suoi alibi sulla mancanza di tempo per nutrirsi in maniera sana e alternativa a certe logiche imposte dal sistema economico. Perchè non provare a ri/scoprire il piacere di perdere qualche ora della propria vita, nel fare una passeggiata in campagna alla scoperta di un contadino che può darti pomodori, melanzane, carciofi appena staccati dalla pianta? Provare il brivido di non entrare per qualche giorno in un triste e freddo supermercato? Ritrovare il gesto amoroso di cucinare qualcosa per le persone che amiamo, ricreando la magia dello stare a tavola, non per nutrirsi ma per il piacere di condividere. La tradizione non solo non è statica come la si vorrebbe spacciare ma è quanto di più dinamico e aderente ai tempi e alla realtà. L’ingrediente di base, introvabile nei cash&carry, è l’onestà intellettuale: merce rarissima in questi nostri tempi oscuri.