Tutele e contratti atipici
16 Giugno 2012Diletta Mureddu
Lavoro in un call center che si chiama Comdata e ho un contratto a tempo indeterminato. Formalmente non sono una precaria e per il governo Monti sono pure una garantita. Al contrario di quanto dice Monti, non mi sono mai annoiata a fare sempre lo stesso lavoro. Prima di Comdata lavoravo in un call center che si chiamava Vol2 dove tutti i 473 lavoratori avevano un contratto a tempo indeterminato.
Lavoravamo con dignità e serietà, poi improvvisamente arriva dal nulla una fantomatica proprietà di cui molti avranno di certo sentito parlare: I Liori.
Questi signori iniziano a non pagare più i nostri stipendi, i contributi, l’affitto dello stabile, le bollette, fino a che ci siamo ritrovati senza un lavoro, senza una sede in cui lavorare e senza più un futuro. Questi signori rubano i nostri soldi e umiliano il nostro lavoro e dopo aver raso al suolo tutto si volatilizzano. Eppure avevamo tutti un contratto a tempo indeterminato. L’epilogo per la maggior parte di noi è stato positivo.
Siamo stati riassorbiti dal call center Comdata. Oggi abbiamo finalmente un lavoro dopo quasi un anno di lotte, occupazioni, manifestazioni, appelli alle istituzioni. Se qualcuno mi chiedesse se sono serena con il mio contratto a tempo indeterminato risponderei di no. Le aziende oggi, soprattutto i call center e soprattutto in Sardegna, non consentono ai lavoratori di poter vivere e lavorare serenamente e tranquillamente.
C’è il pericolo della delocalizzazione, perché il lavoro in paesi come la Romania costa molto meno del nostro e permette un risparmio non da poco; c’è poi il rischio costante che i volumi di attività diminuiscano: noi lavoriamo 2 commesse per Telecom ed Enel e viviamo nel costante terrore che i committenti possano decidere di toglierci il lavoro per mille ragioni: non siamo competitivi, non raggiungiamo gli obiettivi, costiamo troppo, ormai lavoriamo da troppi anni e non produciamo più come una persona appena assunta, siamo rami secchi da estirpare insomma.
Quindi cosa fare per poter stare sul mercato? La risposta è la totale e assoluta flessibilità. Flessibilità significa che nell’azienda per cui lavoro possiamo avere solo una settimana di turni pubblicati perché così riusciamo a evadere meglio la curva di traffico delle chiamate; vuol dire non sapere quando potremo andare in ferie estive perché d’estate c’è sempre più lavoro e bisogna venire a lavorare; significa vederci in ferie forzate a maggio perché c’e meno lavoro e quindi bisogna stare a casa perché altrimenti siamo un costo eccessivo; significa che veniamo mandati a casa quando non ci sono chiamate, scalandoci quelle ore dalle ferie e dai permessi o che veniamo chiamati a casa alle dieci di notte per venire a lavoro il giorno dopo in straordinario se ci sono troppe chiamate. Flessibilità vuol dire che non esistono contratti full time da noi perché un lavoratore part time è evidentemente più flessibile a coprire le fasce orarie critiche. Lo stipendio medio di un lavoratore che ha un contratto a 20 ore è di 500 euro, un lavoratore a 30 ore ha una busta paga di 800 euro, per darvi idea dei nostri stipendi. Il precariato non è solo una condizione lavorativa nel quale la persona è privata della sua sicurezza economica, ma è anche uno stato psicologico in cui il fatto di non intravedere un futuro determina un’angoscia profonda.
L’Eurodap (associazione europea disturbi attacchi di panico) scrive:
“Su 300 persone tra i 25 e i 55 anni, il 70% ha dichiarato di trovare proprio sul posto di lavoro la maggiore fonte di stress. Di questi, il 60% teme i colleghi mentre il 40% si dice completamente assoggettato al capo per paura di essere licenziato. L’aria che si respira in ogni luogo di lavoro è totalmente artefatta e altamente conflittuale. La paura di perdere il posto dà luogo a dinamiche fortemente competitive, con richieste di prestazioni dei dipendenti da parte dei datori di lavoro che difficilmente possono essere disattese dai lavoratori, terrorizzati di perdere la loro fonte di sopravvivenza”.
I giovani hanno bisogno di essere tutelati, di essere protetti, hanno bisogno di avere certezze sul loro futuro, non hanno bisogno della miriade di contratti atipici che non sono stati minimamente rivisti in questa manovra, non hanno bisogno della revisione dell’articolo 18.
I giovani hanno bisogno di lavoro, di uguaglianza e di equità. Hanno bisogno di una società che abbia voglia di sfidarsi e di investire sui giovani, hanno bisogno di sentirsi parte integrante e attiva di questa società perché un paese che non pensa ai giovani è un paese senza futuro e senza bellezza.
Chiudo con qualche riga di una testimonianza scritta da una mia collega in occasione di un convegno.
“Mi chiamo Giulia, ho 32 anni, una laurea in Scienze Politiche, un master in marketing e comunicazione, e lavoro in un call center. Come tutti i ragazzi cresciuti su quest’isola, ho sempre avuto il bisogno di andarmene. E così, dopo qualche mese ho avuto la mia grande occasione.
Una piccola azienda del settore moda del capoluogo emiliano mi ha dato la possibilità di misurarmi a livello professionale. Sono entrata con uno stage, pagato, ma con le migliori prospettive di un lavoro stabile. Poi per motivi vari ho abbandonato tutto quello che avevo e sono tornata in Sardegna.
Ero convinta che, con la mia esperienza e le mie capacità, sarei riuscita anche qui a costruire un qualcosa. E invece, a due anni dal mio ritorno in patria, le cose sono diverse. E’ da più di un anno, infatti, che sono operatrice telefonica – assistenza clienti. Eppure io ho nella mia vita dei ricordi ben diversi.
I miei genitori, paradosso del destino, facevano esattamente il mio stesso lavoro. Avevano due signori stipendi però con cui hanno fatto crescere, e bene, due figlie. Ci hanno coccolate e viziate. I miei genitori non hanno studiato, ma hanno fatto studiare noi. In fondo nei miei libri di economia c’era scritto che lo studio, in termini finanziari, va visto come un investimento. Posticipi l’ingresso nel mondo del lavoro, ci spendi su dei soldi, ma poi quei sacrifici sono ripagati in seguito da un lavoro meglio retribuito e da una crescita nella scala sociale. Forse è stata questa la vera favola dei nostri anni.
La vera favola è stata quella di prometterci un futuro. E sicuramente l’idea di un lavoro redditizio. I soldi non fanno la felicità, ma l’aiutano parecchio.
E nei miei sogni di bambina c’era la casa che desideravo. La vita che desideravo. E avrei voluto dare a Cagliari tutto l’amore di cui sono capace.
Sono orgogliosa di essere sarda, ma vorrei non dovermi lamentare della vita che mi costringe a fare. Vorrei mi desse l’occasione di decidere per il mio futuro. Di decidere se mettere su famiglia o di andare a vivere in una grande casa tutta sola. Vorrei fosse fiera di avere me a lavorare qui e non in qualche azienda all’estero. Vorrei che nelle pagine del più famoso quotidiano regionale ci fosse lo spazio per raccontare le storie virtuose di chi ce l’ha fatta qui. E non in qualche angolo sperduto del mondo. Vorrei ci fosse più meritocrazia. Ma soprattutto vorrei ci fosse da parte nostra più coraggio, di restare.
E non per diventare i migliori fra i mediocri, come mi è stato detto, ma perchè ci vuole molto più coraggio per tornare e restare che per partire. Perchè questa è la mia terra e io ancora ci credo”.
16 Giugno 2012 alle 07:43
Senza parole….bellissimo
16 Giugno 2012 alle 11:46
Grazie, Diletta. Un racconto doloroso ma utilissimo per capire e costruire alternative.
17 Giugno 2012 alle 13:15
Bellissimo pezzo Dile! Grazie.
29 Giugno 2012 alle 18:25
Mi piace Diletta per la forza del suo carattere e la sua determinazione a essere se stessa in questo tempo di difficolta’.Dobbiamo rovesciare le logiche imposte fino ad oggi e solo l’energia della vostra gioventu’ puo’ aiutarci a costruire un mondo piu’ giusto.Complimenti Diletta…!