Sacros Ufitzios
16 Marzo 2010Natalino Piras
La notizia è che l’altro ieri un maestro elementare, supplente, è stato licenziato da una scuola di Pordeneone, in Friuli, perché, lui napoletano, parlava in napoletano ai bambini. Espressioni del tipo: “Settati, piccì”. Il clamore attualmente in corso non fa vedere con esattezza se il parlare napoletano e la conseguente non comunicazione del supplente con le classi sia la vera causa. O se ci sia dell’altro a sostenere “l’incapacità didattica” con cui il maestro, un quarantenne, è stato bollato e sbattuto fuori dalla scuola E se il maestro sia da considerare un lavoratore. E se l’articolo 18 sulla reintegrazione nel posto di lavoro possa in qualche maniera riguardarlo. Proviamo a immaginare che sia vera l’ipotesi più dolorosa: che cioè il maestro è stato messo alla porta in Friuli perché non friulano parlante o perché troppo marcato l’accento napoletano. Perché in qualche maniera “impuro” rispetto alla purezza che la lingua friulana, non sappiamo se naturale o standardizzata, pretende. Detto in sardo, mutuando da una bella canzone: “A foras de sa janna!”. Solo che per il povero maestro non “b’at locu” neppure in mare. Che la bollatura è troppo forte e non sappiano neppure se l’articolo 18 possa permettere una interpretazione di solidarietà con il licenziato. È un bel problema, un bel caso di coscienza. Pensate se la stessa cosa fosse avvenuta in Sardegna dove pure ci sono state diverse storie di allontanamento dalle scuole di insegnanti specie meridionali per vera incapacità didattica e per incapacità comunicativa. Ma dove pure ci sono nuclei e fuochi di puristi della lingua e/o di standartizzatori, e pure ufitzios de sa limba. Uno di questi, qualche anno fa ha distribuito un’agenda con i nomi in sardo del giorno, del mese e del santo. Così capita di leggere che su “1 nadale” è “S. Ansanu” (?) , su 3 “S. Frantziscu Sabèri” (Francesco Saverio, fondatore insieme a Ignazio di Loyola dell’ordine dei Gesuiti) e il 9, semprer de nadale, “S. Siru.” E dire che cose del genere le fanno circolare anche a scuola. Dico “e dire” perché uno dei miei nomi è Siro e in sardo, quando mi hanno chiamato e mi chiamano con quel nome dicono “Siro” e non “Siru”. Ma nell’agenda troviamo anche “Ernestu”,”Teobardu”. “Lutzilla” e pure lasciato in calco italiano “Cunegonda”. Domanda: come fa la scuola ad accettare un sardo siffatto? E chi mandano a insegnarlo? Quali sono gli standard di misura di una capacità o incapacità didattica e di comunicazione con le classi? Non sembrino cose tanto distanti dal lavoro e dalla sua perdita che il licenziamento del maestro butta dentro il crogiuolo del fare (oppure non fare) operaio. Fanno entrare nel discorso scuola e scuole anche come laboratorio linguistico, come commistione necessaria per apprendere e impadronirsi di differenti parlate nel segno di “metas limbazos sapientia”. Pensate voi se fosse vero che il povero maestro napoletano sia stato licenziato in Friuli per la sua parlata e per il suo accento. Mi viene in mente un fatto di cui sono stato testimone. Trenta e passa anni fa in un pullman dell’Arst, linea Nuoro-Bitti (contenitore di storie quotidiane che molto somigliano al film Subida al cielo di Buñuel) alla cantoniera di Sant’Efisio sale un pastore orunese e non appena trovato posto dice al vicino di sedile: “Ma istu ti l’assa eris ssero a Totò in televissione, est innutile, non b’a’ nemos che a isce”. Totò che della napoletanità, potremmo dire napolitudine, fa linguaggio universale, è dentro la comprensione immediata nella scuola impropria sarda. Nessun mimetismo, niente standard. Solo empatia come reciprocità di insegnamento-apprendimento se è vero che quell’uscita pastorale stempera almeno per quel giorno il clima di continua tensione, di continua differenza, dentro il pullman. L’altra cosa che mi viene in mente è un racconto di Mimmo Bua pubblicato anche questo tanti anni fa nella rivista “Thelema”. C’è un io narrante che dice del suo ultimo giorno in una Sardegna che vive sotto la dittatura dei sardi, linguisticamente parlando, duri e puri, che hanno preso il potere dopo la rivoluzione. Chi non rispetta le regole, lo standard, è condannato a morte. Niente patiboli né plotoni d’esecuzione. I condannati vengono espulsi dalla Sardegna, portati in una stazione spaziale e da qui inviati nel cosmo, oltre la stratosfera, appunto un luogo di morti. Ci sarebbe a questo punto da entrare nella tipologia di questi sardi duri e puri e vedere in che maniera la finzione letteraria dice del reale e di come questo reale viva molte questioni identitarie sotto il segno della scissione e non del recupero delle differenze: come se ci siano ancora e sempre tanti santi (o santos?) ufitzios davanti a cui presentarsi. Con terrore e tremore? Io ricordo “sos uffissos” di quando ero operaio. All’ora della sosta per il pranzo erano “letture di vita” di gente del paese, ma pure del mondo, da parte di chi, sbrigata in fretta la pratica del pasto, “prendeva il mazzo” e diventava l’affabulatore di turno. Tittopo, Gesuinu ‘e Ispada, Battore Pira, Placideddu e altri. Una scuola impropria che più scuola, anche come apprendimento delle differenze, non si poteva. Nei cantieri gli uffissos erano così chiamati perché richiamavano quelli della Settimana Santa: che è un’altra bella contingenza. Breve apologo finale. Prendo da facebook. A ridosso dello sciopero del 5 febbraio mi ha scritto Antonio Piga: “Moralmente ci sono, la lontananza però non me lo permete. Mi auguro siate in tanti”. Mia riposta: “Importante oje a iscrier ‘moralmente’. Si potet leghere comente unu appartennere, aere parte in carchi cosa chi no’ er de unu solu ma de meta. Chene cherrer facher sa morale est s’homine eticu su chi contat, chi inghet su disterru. Si b’at un’etica chi galu oje ponet impare concas e birrittas. Custa inoke est sa terra, narat su poeta. Inoke semus pro affirmare s’istoria nostra, sa dignitate de cust’istoria chi donzi die nor furan”. Era il 26 di gennaio. Il carteggio è finito lì.
16 Marzo 2010 alle 21:19
Chi ha steso la lingua sarda per scuole e ufitzios de sa Regione (e che ha preteso di e-stenderla ad ogni microcosmo di pianura e di montagna) non ha mai viaggiato sulla linea Bitti-Orune Nuoro ed ha appreso soltanto da grande, da libri e da revisionisti, un parlare sardo accomodante e succube della lingua dominante. E’ stato gioco facile, per questi ‘limbi-pùtitos’, mutare dall’italiano al sardo cambiando nel finale delle parole le ‘o’ in ‘u’ , facendoci ridere tutti quando li leggiamo o li sentiamo balbettare.
18 Marzo 2010 alle 20:48
Hai fatto bene e l’hai fatto bene, Natalino, a riprendere questa notizia, che ci ha fatto male, a molti. Ma il senso comune (linguistico?) di molti evidentemente oggi è molto lontano da quello spontaneo del pastore orunese in corriera, se è vero che qualche anno fa i leghisti di Cuneo hanno impedito la costituzione di un sodalizio di coloro che, come Totò uomo di mondo, hanno fatto il militare a Cuneo, appunto perché Totò è napoletano. Il patriottismo, anche linguistico, si sa, è l’ultimo rifugio dei farabutti, e dei fessi.
22 Marzo 2010 alle 20:11
Deu mi domandu sceti, ita ddis ant fatu a custus pobiriteddus po tenni un’odiu aici mannu po sa lingua nostra.
Ma depit essi cosa mala de aderus, ca odiant sa logica puru.
Licentziant a unu maistru napoletanu in Friuli, e su chi scriit ddu narat issu e totu, ca non scit poita est, e custu iat essi curpa de is sardus chi bolint una lingua uficiali?
E citat puru a un’atru che a cussu e totu:
“C’è un io narrante che dice del suo ultimo giorno in una Sardegna che vive sotto la dittatura dei sardi, linguisticamente parlando, duri e puri, che hanno preso il potere dopo la rivoluzione. Chi non rispetta le regole, lo standard, è condannato a morte.”
Boh?
Ma forsis est totu una pigada in giru! Faint figurai ca funt fueddendi de su sardu, ma funt fueddendi de sa scola italiana aundi funt passaus totus is fedalis mius e issus e is fedalis de issus!
Sinnucas abarrat sceti un’atra cosa, e mancu mali ca a mei puru is cantzonis napoletanas mi praxint meda: “Munasterio ‘e Villa Claraaaaa…”
22 Marzo 2010 alle 22:00
“Pobiriteddus”? “Odiu”? “Scola italiana aundi funt passaus totus”? Ma mi faccia il piacere!