Ultima spiaggia
16 Luglio 2008
Marcello Madau
Bellezze panoramiche, spiagge, nuraghi, tradizioni. In questi decenni l’accresciuto impatto antropico, la fine del modello petrolchimico, l’irrompere dell’industria del tempo libero e della riscoperta dei luoghi ha posto nuovi problemi di tutela. La tassa di accesso alle spiagge è uno strumento positivo per proteggere i nostri beni e innescare processi di arricchimento economico per il territorio? Essa è un pedaggio per accedere a beni comuni di natura pubblica.
“In fin dei conti, si può dare un euro per entrare in una spiaggia così bella’, dicono molte persone, aseecondando l’idea di qualche comune costiero sardo. Fare cassa prevale sul concetto di bene comune e delle coordinate ideali ad esso legate. L’influenza sulle pratiche connesse ad un’organizzazione democratica dei beni culturali e paesaggistici è profonda.
Nei beni culturali e ambientali la combinazione di elementi pubblici con la possibilità di creare ricchezza tramite gli stessi è anche un problema di scelte in premessa: se non mettiamo in discussione la natura pubblica dei beni in questione, almeno a sinistra, la scelta degli strumenti economici dovrebbe partire da tale punto fermo. Il problema è che la messa in moto di meccanismi e strumenti di valorizzazione economica non sta tenendo fermo tale punto.
Poco conta che un filone assai vivo degli studi relativi all’economia della cultura dica che tali beni relativi non sono equiparabili ai beni di mercato. Almeno fino a quando li pensiamo pubblici (e neppure allora: il consumo di un oggetto di mercato esaurisce lo stesso, volta per volta, in maniera ben diversa da quello di un contesto naturalistico o monumentale). Vediamo allora più da vicino qualche ragionamento ‘economico’.
E’ fondamentale iniziare col distinguere fra la sfera del diritto all’accesso e quella dei meccanismi di ricchezza che gli si affiancano con vari servizi remunerativi: riproduzioni, cartoline, editoria, servizi di guida specializzata, bar, ristorazione etc. La prima più connessa al valore d’uso, la seconda a quello di scambio.
Qualche problema teorico crea l’incidenza su un prezzo d’ingresso comunale del lavoro di guardianìa e pulizia delle aree; non è bene che formi un onere gravante sui cittadini da sommare ad un prelievo fiscale, che già dovrebbe essere destinato, per una parte, alla tutela dei beni culturali e paesaggistici, un obbligo previsto dalla nostra Carta Costituzionale.
Penso perciò che sia limitativo sottolineare, come si fa ultimamente in Sardegna accompagnando la proposta del Piano Triennale sui beni culturali (che cerca di affrontare una modernizzazione del settore da tutti sentita come necessaria), che l’impegno finanziario della Regione per ogni persona impegnata nella gestione dei beni culturali sia troppo alto se commisurato alle visite, poche rispetto ai flussi turistici. Bisognerebbe computare i costi fatti risparmiare allo Stato per svolgere al suo posto i suoi compiti di tutela e sorveglianza sul patrimonio pubblico, ovvero gli stipendi delle persone che il Ministero avrebbe dovuto destinare in un’area archeologica o in un museo. Altro che lavoro nero in questi decenni: nerissimo!
Tornando alle spiagge, trovo il ticket d’ingresso una misura incoerente. Si parla di ‘tassa di scopo’: termine per misure talora dissuasive, come quelle per impedire che in un centro storico si scarichi troppo traffico. Con qualche effetto positivo e molti negativi: chi paga inquina lo stesso, e quindi si monetizza la salute.
Con un biglietto di accesso ad una spiaggia non si tassano gli accessi inquinanti, ma tutti gli accessi. Risarcimento ambientale, ma un danno si risarcisce quando è fatto. Le misure preventive sull’impatto antropico devono essere prodotto di studi strutturati e relative misure organizzative, che creano limitazioni diverse da quelle del traffico automobilistico. Infine, ed in subordine, la destinazione di una tassa locale a fini ambientali dovrebbe essere preceduta da dispositivi di bilancio che la prevedano prima di una ‘stagione’, con precisi capitoli di spesa e obiettivi progettuali di miglioramento ambientale. Resta il rischio di una misura discrezionale a seconda delle regioni: meglio sarebbe la compensazione mediante un sistema premiale (omogeneo su scala nazionale) che indichi misure della pressione antropica e speculativa su ogni luogo per ogni anno, e si sommi agli impegni pubblici di tutela ordinaria del bene ambientale, che non dovrebbero essere oggetto di devolution.
Non è bello, oltrechè di dubbia legittimità, far pagare l’accesso a un bene di natura demaniale con impegni così incerti sull’erogazione dei servizi e la destinazione dei fondi. Quindi: accesso gratuito ai beni pubblici, e pagamento, dove esistano, dei servizi realmente svolti per la sfera propriamente economica e non relativa alla natura del bene, sul quale lo Stato ha obbligo di tutela. Il mantenimento del bene (restauro, manutenzione, pulizia) afferisce a quella sfera di investimento pubblico, in relazione al prelievo fiscale statale, legata ad una valutazione nazionale degli impegni di tutela.
L’ideologia che portò alle celebri ‘cartolarizzazioni’ dei beni culturali e paesaggistici è più radicata di quanto pensiamo! Le comunità e le istituzioni che vogliono promuovere il proprio sviluppo sostenibile non mettano dazi per il godimento dei beni comuni e creiino servizi veramente efficaci. Badino piuttosto ai salassi che, dai bar ai ristoranti agli alberghi, minano le tasche dei consumatori e l’immagine dell’isola. Difendano coste e interno dal cemento, stabiliscano limiti d’accesso dopo serie valutazioni sull’impatto antropico nei luoghi. In prospettiva i guadagni non sarebbero inferiori, e certamente più duraturi, di quelli portati da un dazio ingiusto e medievale.