Un bonus al giorno toglie il welfare di torno
1 Dicembre 2017[Alfonso Gianni]
I due pilastri portanti della Renzinomics, gli incentivi alle imprese e i bonus al popolo, continuano a reggere l’impianto della politica economica del governo Gentiloni. Si potevano nutrire pochi dubbi al riguardo, trattandosi di un governo fotocopia che per di più condivide con il precedente il ministro dell’Economia e delle Finanze.
Questi consentono da un lato di sorreggere un mondo delle imprese che non si accontenta della liberalizzazione del mercato del lavoro e deve essere continuamente stimolato dagli sgravi fiscali e dagli iperammortamenti. Cui si aggiunge per i singoli una sorta di nuovo condono attraverso la riapertura dei termini per la “rottamazione delle cartelle”, ovvero della chiusura dei contenziosi con l’Agenzia delle entrate, contenuta nel collegato fiscale. Dall’altro lato permettono di cercare consensi tra strati popolari vessati da una crisi che ha visto ridurre i loro redditi dal 2008 ad oggi.
Gli istituti statistici ci ricordano che il dipendente medio può comprare con i proventi del suo lavoro una quantità di beni e servizi inferiore di 320 euro rispetto a quella che poteva tranquillamente permettersi nel 2007. Persino Draghi ci dice che “i salari sono ben al di sotto delle medie storiche” e che quindi, se si vuole avvicinare l’obiettivo dell’inflazione al 2%, bisognerebbe aumentarli. Ma la precarizzazione estrema del lavoro è come si sa nemica della lotta salariale. Specialmente in presenza di sindacati piuttosto remissivi. Per cui il cane si mangia la coda. Il governo favorisce con le sue leggi la precarietà, per cui, terminati gli sgravi del Job Act, i padroni si lanciano sul micidiale decreto Poletti che fa del contratto a termine la regola generale. Poi interviene con carità pelosa con i bonus. Il periodo preelettorale favorisce fino al parossismo questa mossa. L’attuale legge di bilancio ne è la dimostrazione più evidente.
Mentre si respingono le più che ragionevoli rivendicazioni della Cgil sulla posticipazione di cinque mesi dell’età pensionabile, e viene ritirato il rifinanziamento della Naspi, la nuova assicurazione sociale per l’impiego, che permetteva la prosecuzione dell’indennità di disoccupazione per chi non aveva trattamento di mobilità (con la scusa che si prevede una proroga della medesima), dall’altro si lascia qualche margine di modifica parlamentare alla legge di bilancio, purché vada nella direzione della distribuzione di bonus et similia. Le rimostranze dei centristi di Lupi portano così alla riformulazione del bonus bebè. Le necessità dell’imminente campagna elettorale spingono ad una riduzione parziale del superticket sulle prestazioni sanitarie “laddove ce ne sia più bisogno”, dice la ministra Lorenzin, ma non può precisare né il come né la misura perché si tratta ancora di un “work in progress”, basato sul criterio della fascia di reddito del paziente.
E naturalmente spunta anche l’emendamento a favore dei caregiver – l’inglese è ormai di prammatica – ovvero della persona che assiste e si prende cura del coniuge, del convivente, di un membro dell’unione civile, di un familiare anche fino al terzo grado non autosufficiente. Benché il fondo predisposto a questo fine venga definito modesto (20 milioni di euro all’anno per tre anni) anche dal plaudente Maurizio Sacconi, è il messaggio quello che conta. Il governo e la sua maggioranza, con il beneplacito delle destre, ribadiscono che intendono utilizzare ogni occasione, in sé anche minima, meglio se mascherata da sensibilità caritatevole, per smantellare pezzo per pezzo il sistema di welfare. Un disegno che è particolarmente avanzato in campo sanitario.
Non si progettano e tanto meno si mettono in opera strutture sociosanitarie pubbliche che possano, con le conoscenze, i supporti materiali e l’ambiente sociale indispensabili, farsi carico della non autosufficienza. Questa viene ricacciata all’interno della famiglia, cui si fa balenare un modestissimo sostegno monetario non si sa fino a quando. In questo modo si assesta un nuovo colpo alla sanità pubblica e al carattere universalistico, pubblico e gratuito che il welfare dovrebbe avere. Nello stesso tempo si fa della emergenza e dell’insorgere della necessità – o dell’esistenza di necessità mai risolte – il viatico per un populismo dall’alto che mira senza pudori alla conquista del consenso.
Ma le risposte dell’ultimo momento sono nemiche di una soluzione dei bisogni sociali. Lo aveva già capito, più di due secoli fa, Alexander Hamilton, primo segretario al Tesoro della nazione americana, che con Benjamin Franklin ha condiviso il privilegio di essere raffigurato sulla moneta verde (quella da dieci dollari), pur non essendo mai stato Presidente degli Stati Uniti, quando scriveva che: “la necessità, specie in politica, dà spesso vita a false speranze, a falsi ragionamenti e a misure corrispondentemente erronee”. Quanta saggezza sprecata.
(Da il manifesto)