Un Mezzogiorno sempre più arretrato

16 Aprile 2010

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Galapagos

Il caso Sardegna si inserisce in un contesto più generale di una crisi di paese dicotomico, che presenta una spaccatura tra un Nord industrializzato e un Mezzogiorno con scarsa presenza di strutture produttive industriali. Ma c’é di più: anche il Nord – in particolare il Nord-Est – patisce la crisi globale in quanto produttore di beni semi lavorati che vengono trasferiti soprattutto in Germania. Ma cosa manca all’economia italiana? Moltissime cose, ovviamente.
La più grave, accanto a una struttura produttiva estremamente frammentata e incapace di fare sistema – come spiegano molti economisti – è stata la mancanza di una politica della ricerca, pubblica e, soprattutto privata. Che deriva anche dalla struttura eccessiva di piccole e medie imprese.
Il settore privato, vista la composizione della produzione, da decenni ha puntato su innovazioni di processo per cercare di essere competitivo con le economie emergenti. Insomma, ha seguitato a insistere sulla riduzione (spesso relativa) del costo del lavoro, cioè sulla compressione dei salari. In questo, fino a metà degli anni ’90 è stata favorita dalla possibilità di svalutazione della lira che dava respiro alla nostra industria manifatturiera e rilanciava (soprattutto con l’ultima grande svalutazione del 1992) la competitività delle merci italiane. Tanto che dal 1993 in poi la bilancia commerciale (quasi sempre in passivo) ha registrato attivi record. Con l’arrivo dell’euro, però, tutto si è modificato: modificare le ragioni di cambio non è stato più possibile e progressivamente l’Italia ha perso di competitività, nonostante i tentativi scellerati di riacquistarla comprimendo il costo del lavoro con flessibilità e mobilità.
L’apertura dei mercati internazionali ha «stressato» il vincolo estero di molti paesi e non solo dell’Italia. Sostanzialmente il che cosa si produce incide sulle performance del paese e sulla qualità del lavoro.
A partire dal 1990 si registra una specializzazione delle esportazioni. Sapere e saper fare nei settori avanzati prelude a una dinamica positiva delle esportazioni, nella capacità di far crescere il Pil e, non da ultimo, il diritto ad avere remunerazioni del lavoro mediamente allineate alla crescita del Pil.
Ma cosa si intende per nuova specializzazione del commercio internazionale?  La crescita del commercio internazionale manifatturiero è sostanzialmente guidata dal settore ad alta e media tecnologia. La crescita dell’intensità tecnologica inizia nel 1985, ma è nel 1995 che c’è il primo break di struttura «tecnologico», seguito dal secondo break riferibile al settore ICT nel 2000. La quota del commercio internazionale legato alla media ed alta tecnologia vale il 39%, contro il 20% dei settori a media e bassa tecnologia, e quasi tutti i paesi a capitalismo avanzato hanno seguito questo trend. Per dinamicità si ricordano i paesi BRIC (Brasile, Russia India e Cina) di cui la Cina è il «driver»; si consolidano i paesi manifatturieri storici; emergono nuovi player come la Danimarca, Svezia, Spagna e Belgio.
L’Italia è rimasta sulle stesse posizioni del 1985-1995, con il settore ad alta tecnologia pari al 10% della produzione manifatturiera, piegata sul mito dei distretti industriali, sull’idea dell’innovazione non formalizzata e sulla «flessibilità» del proprio modello di sviluppo.  Il mondo «industriale», a partire dal 1995, cambia strategia e lavora per anticipare la domanda, mentre l’Italia si preoccupa solo di «migliorare» la propria offerta.  In questo modo l’Italia ha perso la sfida tecnologica, mentre la sfida ambientale ed energetica sembra persa in partenza se analizziamo il trend della brevettazione. Infatti, i brevetti sono lo specchio fedele della capacità del sistema economico di progredire e muoversi nei settori più dinamici.  A partire dal  Protocollo di Kyoto, il trend di crescita dei brevetti mondiali ha registrato tassi particolarmente elevati nelle aree dell’ambiente e dell’energia, in particolar modo nell’ambito dei paesi firmatari. Tra i settori più dinamici troviamo i brevetti nelle energie rinnovabili e nel controllo dell’inquinamento. Se i tassi di crescita dei brevetti nel loro insieme hanno tassi  dell’11% tra il 1996 e il 2006, i brevetti nel campo dell’energia rinnovabile hanno tassi di crescita del 20%. L’Europa è l’area economica più dinamica, rappresentando il 30% del totale dei brevetti, mentre gli Stati Uniti e il Giappone rappresentano tra il 18% e il 26%. Gli stessi BRIC, anche per affrancarsi dalla probabile ascesa dei prezzi delle materie prime e per limitare gli effetti negativi sulla loro crescita, hanno cominciato a investire in questi settori. La Cina è, ad oggi, subito dietro la Danimarca. Non si può dire la stessa cosa dell’Italia. Tra i paesi europei l’Italia è tra i più arretrati e fatica a misurarsi con i paesi emergenti, in particolare nel settore ambientale ed energetico si manifesta una debolezza di struttura. Nella medicina il tasso di crescita dei brevetti è dell’11%. Gli Stati Uniti sono il principale protagonista, ma nel settore farmaceutico e nel medical technology la Germania e la Francia sono tra i primi paesi di area Ocse. Come per l’energia l’Italia è marginale. Stesso ragionamento si può fare per la nanoscienza e la biotecnologia. Sostanzialmente l’Italia è sempre ai margini dell’evoluzione scientifica e non si trova mai tra i primi 8 grandi. Modificare la struttura produttiva almeno ai livelli qualiquantitativi europei è un obbligo. Diversamente, la «meridionalizzazione» dell’Italia rispetto all’Europa più che una prospettiva, diventa una dura e irreversibile realtà. La domanda che dobbiamo porci è: dati i vincoli economici e finanziari europei, com’è possibile che alcuni Stati europei siano emersi come protagonisti, mentre l’Italia è rimasta sempre ai margini?  Tutto questo è accaduto in una fase nella quale le risorse delle imprese non sono state scarse. Il sistema economico nazionale non finirà mai di stupire. Il rapporto Mediobanca sui dati cumulativi di 2022 società italiane del 2009 scrive: “I nuovi debiti non hanno finanziato direttamente le acquisizioni, come verificatosi l’anno prima, ma – in ultima analisi – hanno finito per concorrere alla copertura della generalità degli esborsi, tra i quali come detto i dividendi distribuiti.” Decisamente è un aspetto disarmante. Estremizzando: i debiti non sono più destinati agli investimenti, piuttosto alla remunerazione dei dividendi. Credo che A. Smith che del processo accumulativo è stato maestro, come tutti i classici, salterebbe sulla sedia o sia prossimo a uscire dalla tomba per spiegare ai capitalisti cosa è il capitalismo. Ma la devianza del sistema economico nazionale non si ferma a questo «dettaglio». Già sappiamo che il 40% delle società di capitale in Italia non pagano le tasse perché dichiarano un valore assente o negativo, ma quando queste devono pagare le tasse le pagano proprio poco. Attenzione, non è un problema di aliquota, che è tra le più alte di Europa, piuttosto di base imponibile e di elusione fiscale. La base imponibile ha nei fatti determinato nell’ultimo biennio una diminuzione del 40% degli oneri tributari. Ha concorso la riduzione delle aliquote Ires (dal 33% al 27,5% nel 2008) e dell’Irap (aliquota ordinaria dal 4,25% al 3,9% sempre nel 2008), ma l’esito rimane disarmante.  Sostanzialmente l’aliquota media delle 2022 società è passata dal 29,1% al 23,1%. Il tax rate minimo è quello emerso dai bilanci delle società quotate (11,8%), mentre permane la «penalizzazione» delle medie imprese seppur su un livello inferiore a quello del 2007. Certamente la neutralità fiscale è un principio fondamentale per chiunque si deve occupare di sistema economico e impresa, ma con questi livelli di tassazione «effettiva» molto distante da quella legale, e molto più bassa della media europea, sorgono  interrogativi preoccupanti sul target del «sistema» economico nazionale.

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