Un miracolo dalla Sardegna: la certificazione senza lingua standard
2 Gennaio 2024Murale a Sassari di Ericailcane
[Giuseppe Corongiu]
E’ possibile certificare la conoscenza di una lingua secondo il Quadro Comune Europeo di Riferimento senza una norma ufficiale standard? E’ possibile creare una norma ortografica non tenendo conto del percorso democratico previsto dalla legge? Il senso comune risponderebbe: no. In Sardegna invece si, ecco come.
Dando un’occhiata al Collegato alla Finanziaria approvato dal Consiglio Regionale (legge 29 ottobre 2023, n° 9) ha attirato la mia attenzione una norma. Si tratta dell’art 33 il quale, modificando l’art 6 della legge regionale di politica linguistica del 2018, recita in sostanza che in attesa del completamento dell’attività di standardizzazione è autorizzata l’autocertificazione della conoscenza del gallurese, sassarese e tabarchino, cioè le lingue isolane diverse dal sardo. Niente di strano, anzi diciamo una previsione quasi normale per le nostre lingue alloglotte. Che assevera però, sempre che ce ne fosse bisogno, che, in assenza di codificazione, non si può certificare nessun idioma.
Allora perché ciò è stato fatto invece dalla Regione per il sardo? Essendo però l’unico che ha sollevato dei problemi lo scorso anno, in splendida solitudine, in merito alla cosiddetta “certificazione” mi sono tornate alla mente alcune domande spontanee di senso logico a cui nessuno diede risposta. Siccome la mia obiezione era, ed è, che non si possa procedere a una certificazione seria (e tantomeno né sperimentale né provvisoria) della conoscenza di una lingua in mancanza di un codice, di uno standard, di una norma ufficiale, di una lingua di riferimento (chiamatela come volete) mi chiedevo, e mi chiedo ancora, come si sia potuto procedere così come si è fatto. E quando si è proceduto perché non è stato seguito il percorso democratico previsto dalla legge? Spero che qualcuno risponda e magari mi convinca che sbaglio.
Come sappiamo, lo standard sperimentale approvato da Regione e Consiglio nel 2006 denominato Limba Sarda Comuna, a furia di polemiche negative e distruttive, è stato (nonostante sia ancora il più utilizzato) “parcheggiato” in attesa di completare il suo l’iter di approvazione e una norma della legge 22/2018 ha assegnato a una Consulta il compito di farlo (art. 8 comma 4 “La Consulta elabora una proposta di standard linguistico e di norma ortografica della lingua sarda e ne cura l’aggiornamento”). Logica avrebbe voluto che, prima di avviare la cosiddetta certificazione, si addivenisse a questa incombenza. Invece tale Consulta non solo non è stata mai sentita, ma nemmeno costituita.
Pertanto, siccome per fare la certificazione, come in tutte le lingue del Quadro Europeo di Riferimento pomposamente richiamato nelle delibere e nella legge, serve comunque una lingua codificata (altrimenti su quale parametro si valuta la conoscenza o meno?), ci si sarebbe aspettati che prima la Regione si occupasse di perfezionare definitivamente una norma scritta di riferimento (nelle modalità democratiche previste dalla legge) e poi procedesse a certificare gli operatori siano essi insegnanti, sportellisti, programmisti, funzionari, dirigenti, scrittori o autori.
Invece, a leggere gli atti disponibili, il problema è stato risolto in un altro modo, a mio avviso senza tener conto delle espresse previsioni di legge e comunque interpretandole ad usum. In sostanza, sono state fatte delle modifiche (da chi è un mistero perché negli atti resi pubblici non è chiaro) estrapolando (?) dalla LSC una mera norma ortografica polinomica di rappresentazione di una serie di forme dialettali con l’aggiunta di alcuni nuovi grafemi (?) scelti non si sa in base a quale esigenza o indirizzo. La Giunta Regionale ha ratificato tale trasformazione anonima non prevista (a mio avviso) dalle norme e l’ha approvata dandone notizia all’Università di Cagliari, la quale, dagli atti in possesso, non ha avuto nulla da ridire e si è assunta l’onere della certificazione avviando la campagna per rilasciare i patentini. Basta leggersi le delibere per ricostruire questo iter.
C’è un forte problema di logica amministrativa e culturale. Ora, la norma ortografica ottenuta con questo processo è anomala, in quanto non è una lingua standard, né un codice di riferimento, né una lingua normale come quelle date per scontate dal QCER, ma semplicemente un codice parziale ortografico di rappresentazione dei singoli dialetti (un po’ come quello contradditorio usato dal Premio Ozieri) che compongono il diasistema sardo, e neppure tutti. Quindi, in realtà, alla fine dei conti, consegnando i patentini quello che Regione e Università hanno fatto non è certificare la conoscenza di una lingua, ma è accertare tutta una serie di competenze delle forme pluridialettali degli operatori scansando il problema organizzativo, culturale e politico di dover riunire la Consulta per perfezionare l’iter della standardizzazione della lingua.
L’articolo 9 comma 5 della legge del 2018, non può essere interpretato come un via libera a certificare comunque, ma sempre in presenza di una norma. E’ vero che la legge autorizza l’assessorato a certificare provvisoriamente, ma sulla norma non ha competenza. La norma deve uscire dalla Consulta, oppure si doveva utilizzare la norma sperimentale che già c’era in attesa di aggiornarla (sempre a cura della Consulta però). Non voglio entrare nel merito giuridico della questione: giusto o sbagliato che sia questo giudizio lo lasceremo a chi farà un accesso civico a legislatura conclusa per capirne di più. Allora forse qualche risposta ci sarà.
Quello che mi preme sottolineare è, a mio avviso, l’inopportunità politica e culturale di aver saltato a piè pari, con una soluzione che non so come definire, la centralità della codificazione unitaria della lingua e la sua definizione attraverso un organo democratico rappresentativo della società civile previsto per legge. Una cosa è certa: ciò non farà del bene alla politica linguistica e neppure alla democrazia. E non darà alla lingua sarda il prestigio di cui ha bisogno per sopravvivere. Anzi confermerà la sua vocazione a essere un pluridialetto invece che è una vera lingua.
Sarà anche vero, come ha sottolineato qualcuno durante la Conferenza della Lingua “poco o nulla” Aperta del 2023, che l’Università non fa politica, ma a me sembra che invece tutta questa operazione si possa inserire nel triste solco della narrazione che nega da decenni la presenza in Sardegna di una lingua unitaria, civica o nazionale. E questa è politica. Cioè, si nega il principio (stabilito invece dalla legge 482/99 della Repubblica) che il sardo può essere codificato normalmente e unitariamente e che invece possa essere valorizzato (e certificato), solo attraverso le sue forme più o meno spontanee dialettali e neppure tutte. Non entro nel merito, la si può pensare anche così. Si può anche ritenere che la lingua standard (normale in tutte le lingue) sia invece una schifezza per il sardo o crearne un’altra a piacere. Ma allora che senso ha, in assenza di standardizzazione, promuovere la certificazione, peraltro quando la stessa legge ti obbliga a seguire un percorso ben preciso che è stato bypassato o interpretato senza logica?
La norma prevista nel collegato che ho citato in premessa lo rivela in maniera chiara: infatti, al contrario, l’autocertificazione delle lingue alloglotte si può fare proprio con la motivazione che la standardizzazione di gallurese, sassarese e tabarchino non è stata ancora completata e la certificazione non è possibile. Allora perché invece per il sardo non si è ragionato allo stesso modo? Si è proceduto invece senza coinvolgere la Consulta per stabilire il codice base della certificazione, cioè la lingua ufficiale o la norma così come previsto dalla legge? Delle due l’una: o non si è certificato con una norma standard valida (che era compito della Consulta fare) e allora tutto è stato solo una grande prova di orgoglio dialettale accademico per sventolare un patentino provvisorio e sperimentale inutile, oppure si è certificato con una norma “abusiva” che doveva invece, per previsione di legge, passare per la stessa Consulta. Non ci sono altre possibilità.
Di sicuro non è stata un’operazione lineare, democratica e trasparente. Illogica e contradditoria, appunto. Non se ne è discusso, nessuno sa chi siano gli autori materiali di questa nuova “norma”, si è evitato inoltre di affrontare il problema dei problemi della questione linguistica indicato dalla legge e cioè la sua standardizzazione unitaria, senza la quale il sardo come lingua non esiste. Si è insomma levata la possibilità ai cittadini di esprimersi su un argomento importante. Si è coperta anche, con questa attività, l’inutilità ormai conclamata e il fallimento della politiche linguistiche di questi ultimi anni. In altri tempi, una comunicazione di questo genere, avrebbe scatenato un pandemonio. Oggi invece, visto lo stato di chi si occupa di lingua sarda, sono certo che non succederà nulla. Almeno fino a che il prossimo Consiglio e Governo Regionale non si occuperà della questione.
Non resta molto da aggiungere, solo che i fatti più preoccupanti non sono quelli descritti. Piuttosto l’acquiescenza e il mutismo che ha colto moltissimi tra intellettuali, operatori ed esperti che o non hanno capito, o se hanno capito hanno ignorato e fatto spallucce. Diciamo che si è suggellato per l’ennesima volta il fatto che il sardo non è una lingua normale, ma che viene “narrata e agita” come un pasticcio dialettale variamente formato. Polinomico appunto, che tradotto dal linguistichese significa, nel mondo normale fuori da qui, dialettale. Che si può certificare, certo, come tutte le cose, ma in un modo talmente curioso che non esiste in altre parti del mondo se non per lingue siberiche o tribali. In pratica confermando ciò che gli haters del sardo hanno sempre sostenuto fin dagli Anni Settanta. La negazione totale di una lingua, fatta paradossalmente sostenendo di promuoverla e difenderla nei suoi dialetti. Autocolonialismo. Ci si sarebbe aspettati una levata di scudi de sos amantiosos come in altri tempi … e invece…
…E invece si evince che ai sardi (in particolare a quelli che operano nella movida linguistica dei nostri giorni che non è più un movimento politico e culturale serio come un tempo) evidentemente tutto ciò va bene e che per loro il sardo è comunque una lingua che può essere valorizzata solo considerandola a pezzi (varianti, varietà, forme dialettali, sub lingue interne ad libitum), dove ogni orticello ha il suo reuccio dialettale indisturbato che può farla serenamente da padrone senza dover ragionare su lingue standard che sono un concetto evidentemente troppo complicato da capire per i sardi. O troppo autoritario appunto perché il populismo linguistico è diventato egemone in questo settore perché agevolata dalla stessa classe politica. Si dà ragione a tutti, ognuno ha la sua parte.
L’importante è non parlare del sardo come lingua civica o nazionale, perché questo farebbe scattare le difese immunitarie del potere che in Sardegna è contro il plurilinguismo. Poco importa fare operazioni irrazionali o che fanno sorridere l’Europa delle minoranze linguistiche e presentano la nostra isola in una luce grottesca come esempio e manuale di ciò che non va fatto in campo linguistico. Il riferimento al Quadro Comune Europeo che riguarda lingue normali, e non pluridialetto come il sardo, l’avrei comunque evitato a scanso di parodie salaci.
No, non cambierà nulla. Siamo fatti così, c’è poco da fare. Per ora. Per questa generazione.