Una giornata nera a Nuoro

12 Ottobre 2024
“La madre dell’ucciso” di Francesco Ciusa al Museo di Pettinengo

[Graziano Pintori]

Nera. La giornata vissuta dalla comunità nuorese il 25 settembre 2024 è stata una giornata nera, al massimo della saturazione.

La tragedia consumata nel capoluogo barbaricino, tranquilla provincia italiana, è stata come un tuono fragoroso che ha scosso tutto l’abitato e colpito il generale sentire dei suoi abitanti. Il tragico fatto è andato oltre l’immaginario stragista, è stato qualcosa di orribile che l’artefice del misfatto si è sentito di perpetuare perché proclamatosi dittatore assoluto della sua famiglia, perché titolare dello sperma seminato nel corpo di una giovane donna.

Come in un film horror vedo l’assassino posseduto da questo pensiero scuro e obliquo, che lo spinge verso la mattanza. Ha iniziato a mietere vittime prima con le quattro esplosioni verso la moglie e madre, poi uccide la figlia, quella che l’aveva definito “L’amore più grande della mia vita”, successivamente i figli maschi: uccide il bambino e ferisce l’adolescente.

L’odore del sangue già versato lo corrobora per versarne dell’altro. Così mette fuori dal mondo l’inconsapevole vicino di casa, quello che amava il canto lirico e fare acquerelli. Resta da versare il sangue della madre, che gli diede vita e amore, anche lei ferita gravemente. Infine, il colpo finale: una scarica di fuoco da quella beretta 7.65 gli ha fatto esplodere il cervello, ormai bucato dalla follia sanguinaria. Risultato: cinque morti, due feriti. Questo sanguinoso fatto, se mai persistessero ancora dei dubbi, ci dice, fra l’altro, che non esistono immunità geografiche, culturali, etniche, religiose o quant’altro per sentirsi lontani e al sicuro da certi episodi.

Nessuno può dire “De cust’abba non bibo”, come ci ricorda l’adagio in nuorese. Credo che la strage di Nuoro non possa e non potrà essere classificata come cronaca sic et semplice, ma dovrebbe essere sviscerata in tutti i suoi aspetti per tentare di capire cosa induce una persona apparentemente consueta, abitualmente normale che impugna un’arma e uccidere spietatamente senza se e senza ma. A tal proposito non mi voglio azzardare a dare spiegazioni, perché non possiedo gli strumenti di conoscenza e di valutazione tali da definire i motivi che hanno generato un simile episodio. Possiedo, però, la capacità di osservare il mondo che mi circonda, dal quale molte volte avverto il suo precipitare verso l’incattivimento dei rapporti umani, banalmente espressi anche da un linguaggio smodato e urlato, tanto da sembrare privo di pensieri.

Vedo indifferenza e approssimazione tra la gente, sento le lacerazioni che scaturiscono da quella forma di individualismo che pretende amore, affetto, fiducia e rispetto per sé stessi, senza mai ricambiare gli altri allo stesso modo. Non mi azzardo a dire che le famiglie di oggi sono generalmente malate, però penso che il misfatto di Nuoro sia una malattia all’ultimo stadio maturata dentro il suo corpo sociale, alimentata da diversi fattori esterni che hanno indebolito il sistema immunitario di quel corpo. Fuori metafora e senza riferimenti specifici ai fatti di cui trattasi, in linea di principio devo dire che i fattori esterni che hanno colpito quel corpo sociale sono la prova, a mio parere, che viviamo in una società sbilanciata a favore di chi ha a scapito di chi non ha.

Infatti, questi ultimi vivono in una realtà in cui la precarietà li accompagna quotidianamente, a causa di quei diritti costituzionali diffusamente non garantiti. Vedi lavoro, salute, istruzione, casa ecc. Eppure, ipocritamente, le tante decantate famiglie continuano a essere considerate il fulcro delle società. L’altro aspetto è il ruolo della donna nella famiglia gravata dal peso di un solo reddito, garantito il più delle volte dal genere maschile.

Una condizione che da origine a una sorta di dipendenza psicologica ed economica della donna, la quale è impossibilitata a esprimere pienamente il suo ruolo di moglie e madre, di lavoratrice e produttrice di benessere per se stessa e la famiglia. Una situazione voluta da molti uomini divenuti, a seguito di una maligna metamorfosi, cattivi patriarchi tesi al depauperamento del rapporto affettivo familiare. A questo punto proviamo a tirare le somme: se la fine del rapporto familiare lo decreta il maschio patriarca, che coscientemente riduce la famiglia in stato di povertà materiale e affettiva, non succede nulla di clamoroso.

Tutto fila. Se invece la donna dice “sono stanca, non ce la faccio più. Vado via”, allora si scatena quel falso orgoglio del patriarca padrone per la perdita del possesso della moglie e madre della famiglia. Considerate un insieme, un mucchio di cose, cioè la sua “roba”, direbbe Verga, da cui lo scatenamento della nera follia e della morte che avvia la sua macabra danza ritmando: “O mia o di nessuno”. La rottura del patto di convivenza deciso dalla donna è un tradimento che può essere lavato solo con il sangue.                                                                                                                             

Questo che avete letto è uno dei tanti racconti sulla violenza in ambito familiare: è cronaca di tutti i giorni. Per finire, a tutti i livelli istituzionali bisogna avere contezza della violenza familiare, capire che si tratta di qualcosa che va affrontata non solo dal punto di vista giudiziario con inasprimento di pene, cavigliere elettroniche, carcere duro e isolamenti perpetui ed ergastoli vari. Sono convinto che la famiglia abbia necessità primaria di emanciparsi, innanzitutto con la dignità del lavoro, dell’abitazione, della sanità e scuola diffusa per tutti i generi.

Emancipazione significa trasmettere a ciascuna famiglia che si sta componendo la certezza di poter progettare il proprio futuro. Ripeto: al capezzale della malattia sociale non sono necessarie esclusive leggi securitarie, economie di guerra e angosce climatiche come le stiamo attualmente vivendo, ma tutte e tutti abbiamo necessità della vita che valga la pena di essere vissuta. Tutte e tutti abbiamo necessità di gioventù e futuro per alimentare le speranze.

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