Una settimana contro l’Apartheid israeliano
1 Marzo 2013Anna Maria Brancato
Prende il via la “IX Settimana contro l’Apartheid israeliano”. Per la prima volta la città di Cagliari ha aderito alla “Settimana contro l’Apartheid israeliano” (IAW, Israeli Apartheid Week), un appuntamento annuale giunto alla sue nona edizione, che consiste in una serie di eventi organizzati in varie città e università in tutto il mondo tra la fine di febbraio e il mese di marzo e che l’anno scorso ha visto l’adesione di oltre duecento città in tutto il mondo.
L’iniziativa ha preso avvio lo scorso mercoledì 27 febbraio nella facoltà di Studi umanistici dell’Università di Cagliari, con la proiezione del film-documentario Roadmap to Apartheid, dei registi Ana Nogueira, sudafricana, e Eron Davidson, israeliano, con la voce narrante di Alice Walker.
Le iniziative proseguiranno in occasione della giornata mondiale della donna venerdì 8 marzo alle ore 17, presso la ex facoltà di Scienze Politiche di Cagliari, con un incontro-dibattito dal titolo “Le donne nella resistenza palestinese”, al quale sarà presente Leila Khaled, prima donna ad aver partecipato attivamente alle azioni della resistenza palestinese, membro del FPLP (Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina) e attualmente membro del Consiglio Legislativo Palestinese. Saranno, inoltre, presentate le poesie dell’artista e attivista palestinese Rafeef Ziadah, tra gli organizzatori della IAW.
La serie di iniziative si concluderà mercoledì 20 marzo sarà la volta della presentazione del libro “Festa di rovine” di Miryam Marino, esponente della rete “Ebrei contro l’occupazione”, presso il dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica di Cagliari.
Il documentario d’apertura ben rappresenta lo spirito dell’iniziativa, in quanto i due registi analizzano meticolosamente le corrispondenze tra il regime sudafricano prima di Mandela e quello israeliano, applicando a entrambi il concetto giuridico di apertheid.
A seguito della visione, interessanti spunti di dibattito e riflessione sono stati forniti da Wasim Dahmash, docente di Lingua e letteratura araba presso l’Università degli Studi di Cagliari, che ha illustrato in maniera efficace il significato della parola araba ṣumūd, utilizzata per indicare qualcosa di più della resistenza armata o di quella non violenta, più vicina ad un “continuare a esistere in Palestina per resistere”; e da Felice Tiragallo del Dipartimento di Storia Beni Culturali e Territorio, che ha invece incentrato il suo intervento sulla speranza che un risveglio e un impegno maggiore da parte della comunità internazionale possano portare alla fine dell’apartheid israeliano, così come è avvenuto per il regime sudafricano.
Apartheid in afrikaans significa “separazione” ed è un termine coniato per la prima volta ai tempi dell’Unione Sudafricana per indicare il regime istituzionale e sociale fortemente razzista, portato avanti dalla minoranza bianca della popolazione, allora al governo grazie alla vittoria del National Party nel 1948, ai danni della maggioranza non bianca. Se il 1948 segna l’avvio di un politica ufficiale di stampo razzista, alcune misure legislative entrate in vigore prima di tale data già ne prefiguravano gli sviluppi, come ad esempio il Natives Land Act del 1913, che vietava agli indigeni l’acquisto di terre al di fuori di quella sorta di “riserve indiane” (bantustan) ad essi assegnati. Queste erano aree “formalmente autonome” funzionali alla segregazione dei neri ed estremamente povere in quanto il loro perimetro, tracciato arbitrariamente, era calcolato in modo da lasciare risorse naturali e industrie volutamente all’interno dei territori gestiti dai bianchi.
Il regime d’apartheid venne fortemente criticato dall’ONU e dalla comunità internazionale che, tra le altre cose, non riconosceva l’istituzione del bantustan come entità autonoma. Una delle prime azioni intraprese contro il regime dell’apartheid fu la Risoluzione 134 del 1960 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che prendeva atto della situazione criticandone le politiche e le azioni del Governo sudafricano che avevano portato a tale situazione e alla morte di un numero consistente di cittadini africani e, nello stesso tempo, invitava le istituzioni a prendere misure che riportassero l’armonia razziale (racial harmony si legge nel testo della Risoluzione) e l’equità fra la popolazione.
Oltre all’impegno dell’ONU, la comunità internazionale con l’eccezione, tra gli altri, di Israele reagì con l’embargo sulle esportazioni di armi al Sudafrica e con l’esclusione simbolica del paese dalle Olimpiadi del 1980.
A questo punto è utile chiedersi perché il regime sudafricano venga spesso paragonato all’ancora attuale regime d’apartheid israeliano il quale, nonostante le continue violazioni dei principi basilari dei diritti dell’uomo e del diritto internazionale, viene spesso indicato come uno “Stato di diritto”. In uno “Stato di diritto” tutti i cittadini dovrebbero partecipare alla vita politica e alla gestione del potere e vedersi riconosciuti i propri diritti politici, civili e civici.
Tenendo a mente i caratteri principali del regime d’apartheid sudafricano, non risulta troppo difficile cogliere delle somiglianze con quello che avviene oggi all’interno dello Stato d’Israele, a partire dall’espropriazione di terre, di diritti e di risorse. Dopo l’autoproclamazione nel ’48 dello Stato ebraico, l’originaria popolazione palestinese, che ancora ne rappresentava la maggioranza, venne cacciata dai propri territori e costretta a cercare rifugio negli stati confinanti. Chi rimase fu invece costretto a stanziarsi in campi o aree diverse dai luoghi comuni di residenza per far posto ai nascenti insediamenti ebraici (colonie e avamposti).
La violenta politica demografica è forse oggi la testimonianza più evidente dell’analogia tra il sistema giudiziario israeliano e quello dell’apartheid sudafricano, a partire dai provvedimenti che regolano l’acquisizione della cittadinanza israeliana e che cercano di preservare una maggioranza ebraica.
Ad esempio, la politica della costruzione di aree esclusivamente ebraiche, gli espropri e la costruzione della “barriera di separazione” che mira alla creazione di piccoli spazi riservati alla comunità palestinese, separati sia dal resto dello Stato d’Israele che dalle risorse naturali e dalle aree industriali del paese.
Anche il regime israeliano è formalmente condannato da buona parte della comunità internazionale e della società civile, non solo attraverso canali istituzionali, ma anche attraverso una forte campagna di boicottaggio di Israele.
Una iniziativa, dunque, all’insegna dell’impegno politico e sociale organizzata in collaborazione con il movimento BDS, l’Associazione Culturale Amicizia Sardegna Palestina e il Collettivo Universitario Autonomo Casteddu.