Una storia ordinaria?
1 Giugno 2010Alice Sassu
Molto spesso accade che le parole, quelle vere, quelle di vita vissuta, quelle che raccontano, quelle sentite in diretta, quelle che scandiscono il tempo e afferrano, colpiscono e arrivano nel profondo, non hanno bisogno di altro che di sé stesse. “Era il 10 Febbraio 1992. Non dimentico questa data, anche se è una delle tante. Ero ancora all’università in quel periodo e nell’inverno 1991-92 abbiamo avuto dieci volte la neve in Palestina e tanta a Betlemme. Dormivo, era notte e avevo freddo, allora vivevo nella casa dei miei genitori, quando verso mezzanotte ho sentito correre intorno alla nostra casa e all’improvviso qualcuno ha sbattuto le armi contro la porta. Io sono nato nel 1968 come quelli della seconda occupazione. In Palestina le generazioni dipendono dall’occupazione: abbiamo la generazione di quelli nati nel 1948 e di quelli nati nel 1967, cioè quando l’occupazione si è estesa a Gaza e a Gerusalemme est. Già da bambino ho imparato a vivere in un clima di violenza. Nel 1976 ad esempio ricordo attorno a me lacrimogeni, caos, bombardamenti, ero un bambino e correvo in mezzo a tutto questo. Nell’81 mio fratello George a 14 anni, mentre era a scuola con i suoi compagni di classe, è stato arrestato dai militari israeliani per 18 giorni. Venivi semplicemente arrestato per “ragioni di sicurezza”, anche a 14 anni, a volte per 18 giorni, a volte per un mese a volte per mesi. Nell’84 hanno arrestato due miei fratelli, Anton e Raed, nell’85 George, nell‘86 George, e ancora nell’87 e nell’88 George, e nell’89 sono stato arrestato io insieme a George e Raid. Il 29 ottobre del 1987 nell’Università di Betlemme durante una delle manifestazioni studentesche non violente contro l’occupazione, gli israeliani hanno chiuso l’università e sparato ad uno studente. L’hanno ucciso. Questo fu prima della Prima Intifada, un mese ed una settimana prima. La prima intifada è iniziata il 9 dicembre del 1987 e tutte le università e le scuole furono chiuse dal governo israeliano. Per tre anni è stato negato il diritto di studiare a tutti i palestinesi e quando il 1 ottobre del 1990 sono state riaperte, io ero in prigione e non potevo proseguire gli studi. L’occupazione non è solo una questione di violenza e di soprusi, ma interferisce anche con tutto quello che è la tua vita, sogni, pensieri e passioni. Il 10 febbraio del 1992 sono venuti in casa mia con jeep e 50 o 60 soldati. Loro non bussano alle porte, vengono e le aprono. Sono entrati molto velocemente in casa insieme all’intelligence israeliana, loro poi sanno tutto sulla situazione della tua famiglia, tutto nel dettaglio. Mi sono vestito e nel mentre loro sono entrati e hanno messo tutto sotto sopra, hanno buttato per terra tutti i miei libri e il mio materiale universitario, hanno cercato e ricercato ma non hanno trovato niente naturalmente. Mi hanno detto “vieni con noi”, due soldati mi hanno afferrato, mi hanno controllato in tutto il corpo, ammanettato le braccia dietro e bendato. Da quel momento non ho visto più nulla, ho solo sentito mia madre che piangeva e quando ero dentro la jeep, sentivo solo il suono delle percosse. Mi hanno picchiato per tutto il tragitto, che era lungo, infinito, ma a quel punto sentivo solo il dolore fisico. Sembra che si divertano a picchiarti ed umiliarti. Mi hanno portato nel loro quartier generale a Betlemme e mi hanno interrogato la stessa notte. Sono stato due notti in una cella, una cella molto buia, maleodorante, senza sole e perfino con coperta e materasso bagnati. Non ho dormito. Poi mi hanno trasferito nella prigione di Betlemme, dormivo in tenda e faceva freddo. Quando mi hanno arrestato un soldato mi ha detto: “Tuo fratello George ha detto che gli manchi” e io ho risposto: “Grazie, anche a me manca” . Mi hanno mandato in prigione con lui. Stavo con lui, con mio fratello George e i miei amici dell’università. Un giorno mi hanno dato un pezzo di carta scritto in ebraico, ma io non conosco l’ebraico. Ho chiesto a qualcun altro di tradurla perché io non capivo, diceva che il mio arresto sarebbe durato 4 mesi, perché io rappresentavo un “pericolo per la sicurezza dello Stato di Israele”. Il foglio era già stato firmato, la sentenza era già stata emessa senza nessun processo. Il fatto che io fossi uno studente dell’università di Betlemme rappresentava di per sé un pericolo per lo Stato di Israele. Abbiamo ricorso alla Corte d’Appello che in realtà non si tratta di un vero e proprio processo, il dossier su di te è segreto e non hai nessuna possibilità di difenderti. Durante il processo mi accusavano di essere un attivista di Beit Jala, e non capivo le ragioni. Ho risposto che se fossi stato un attivista lo sarei stato di Beit Sahour, visto che io sono nato a Beit Sahour e vivo a Beit Sahour. Mi dissero che nel novembre del 1991 avevo partecipato ad una conferenza della delegazione di pace palestinese a Beit Jala. È vero che io ho partecipato a quella conferenza, ma era semplicemente un dibattito per parlare della Conferenza di Madrid (in preparazione degli accordi di Oslo del ‘93). Da una parte Israele mostrava a tutto il mondo di volere la pace, ma dall’altra, in Palestina, continuava con i soprusi e gli arresti, studenti in particolare, la maggior parte degli studenti dell’Università di Betlemme era in prigione. L’obiettivo dell’occupazione è quello di renderti la vita impossibile, affinché tu decida di andartene. Perché hanno chiuso le nostre università, perché ci arrestano, perché limitano la nostra libertà, perché ci torturano? solo per rendere la nostra vita uno schifo. Io penso che siamo veramente forti, perché continuiamo a vivere e amare nella nostra terra, nonostante l’occupazione. Tutto questo cambierà un giorno, l’occupazione non durerà per sempre, il muro non rimarrà per sempre, questa è la nostra speranza, se non avessi speranza perché dovrei continuare a vivere qua?. Per me la prima e più grande forma di resistenza è quella di continuare a vivere nella mia terra, la prima e più grande forma di resistenza è quella di esistere”.
Foto (Casa bombardata – Beit Sahour 2002)
e racconto di Ayman Abu Zulof