Un accordo senza garanzie
1 Luglio 2011Antonio Rudas*
L’accordo del 26 maggio è uno scambio iniquo per una parte considerevole di lavoratori, inoltre presuppone scelte che potrebbero incidere sul modello di sviluppo di un territorio che fatica a trovare una sintesi tra la sua vocazione naturalistica e la necessaria convivenza delle attività produttive, senza le quali rischia di rimbalzare da una monocultura ad un’altra.
È un articolato di punti la cui unica certezza è rappresentata dall’immediata chiusura delle produzioni esistenti in cambio di una promessa e di poche garanzie.
L’ENI nel 2003 aveva sottoscritto a Palazzo Chigi un protocollo analogo ma di segno diverso, infatti si era impegnata a rilanciare le produzioni di base, anche se poi ha fatto esattamente il contrario. Nel 2009, nell’ambito di una successiva ondata di dismissioni, e nell’intento di far dimenticare la chiusura del Cumene e del Fenolo di Porto Torres, aveva fatto di peggio.
Allora c’era da gestire una rivolta senza precedenti (si veda la manifestazione del 4-dicembre-2008). Infatti riuscì a imporre, scavalcando la CGIL di Sassari, con l’assenso del sindacato di categoria nazionale e regionale e il silenzio delle altre confederazioni, un “accordo porcheria”.
Quindi la falsa garanzia sul futuro del Cracking dello stabilimento turritano, individuato come strategico per le attività nazionali e regionali, venne fornita solo per calmierare la rivolta in atto. Oggi ne abbiamo la riprova, quello stesso Cracking viene infatti superato in cambio della realizzazione di nuove future produzioni, il cui impatto occupazionale ma soprattutto il “colore” è tutto da verificare.
È evidente che se si vogliono comprendere gli accadimenti attuali ma soprattutto il futuro che attende l’industria territoriale, non si può prescindere dalla inaffidabilità e incoerenza di questa multinazionale e dalla svolta intervenuta nell’ottobre del 2009, che ha rappresentato uno snodo decisivo nella decennale politica di uscita dalla fabbrica Turritana.
Consapevole di ciò la CGIL di Sassari, anche in questo caso attirandosi feroci critiche, aveva preso atto che la chimica di base senza investimenti era da considerarsi morta, per questo invitò il territorio ad elaborare il lutto e guardare avanti. L’intento era quello di costruire un vero tavolo di confronto coinvolgendo il Governo nazionale e regionale con l’obiettivo di ottenere le bonifiche e una vera riconversione industriale.
Ovvero l’avvio del passaggio controllato e garantito dal vecchio al nuovo anche per salvaguardare i livelli occupazionali e sfuggire così facendo, alla consueta politica dei due tempi di ENI. Una pratica consistente nell’imporre i sacrifici al primo turno, in attesa del secondo che non arriva mai.
Ma le istituzioni, la politica e la parte più retrograda e meno coraggiosa del movimento sindacale hanno preferito ignorare la realtà, nascondendosi dietro battaglie meramente difensive e prive di sbocco.
Anzi oggi alla luce dei fatti è persino lecito domandarsi se alcuni settori della rappresentanza politica e sociale abbiano volutamente operato in questo modo, assecondando il colpo di teatro del prendere o lasciare dell’ENI, il quale non dimentichiamolo, è un colosso non solo economico ma anche politico, con un’enorme potenziale di condizionamento delle scelte altrui.
Purtroppo l’intesa del 2003, del 2009 e del maggio 2011, pone seri problemi anche alla credibilità del movimento sindacale, perché nonostante esso continui a offrire strumenti di sana e reale tutela ai suoi associati e ai lavoratori in generale, è indubbiamente penalizzato da alcune logiche consociative e da derive corporative presenti al suo interno. Del resto quando un soggetto di rappresentanza elude la sua visione generalista perdendo i connotati solidaristici, tanto da invertire l’approccio debole-forte, rispetto alle problematiche che deve affrontare, finisce per disperdere la sua funzione primaria che risiede nella tutela dei più bisognosi.
Esistono diversi antidoti per combattere tale malattia, ma uno in particolare, oserei dire imprescindibile, è quello relativo alla democrazia di mandato che consiste nell’impedire ai gruppi dirigenti di sostituirsi nelle decisioni che spettano come in questo caso ai lavoratori. Infatti quale futuro può avere un sindacato che sottoscrive intese senza sottoporle alla verifica del consenso della base che pure vuole rappresentare?
Ma torniamo all’accordo, i suoi contenuti sono chiari nella parte riguardante la chiusura degli impianti, complessi e indefiniti (si veda l’addendum) in quella delle garanzie.
Ciò è stato palesato nella prima riunione del tavolo convocato lo scorso 22 Giugno, quando ENI non ha potuto non confermare di essere in attesa di una molteplicità di atti e autorizzazioni. Ma ci ha rimesso ancora del suo, sostenendo che una parte delle aree sarà bonificata solo in presenza di progetti per nuovi insediamenti, un’assurdità immensa. Lo ha fatto con una disinvoltura pari solo alla sua arroganza e in presenza degli enti locali i quali prigionieri della loro stessa firma apposta al protocollo, facevano rilevare il loro inutile quanto tardivo disappunto. Per non parlare della Regione che anche in questa occasione ha palesato la sua totale ininfluenza rispetto a decisioni che vengono prese nel continente.
Ma le perplessità evidenziate nell’individuazione degli strumenti per la ricollocazione dei lavoratori dell’indotto sono le più preoccupanti.
Per adesso le soluzioni continuano ad esistere solo tra le nuvole degli intendimenti di chi li propone. Per non parlare poi delle rassicurazioni poco credibili e tutte da verificare circa la natura delle biomasse da utilizzare nei processi produttivi, della inesistenza dei terreni e delle colture o del mancato coinvolgimento delle realtà del mondo agricolo Sardo. In definitiva è tutto da concretizzare se non per un’unica cosa, la chiusura del petrolchimico.
E ora il sindacato è più debole, considerato che gran parte dei lavoratori con i quali si sarebbe dovuta sostenere la vertenza, stanno per essere estromessi dalla loro fabbrica. Per adesso non resta altro da fare che i complimenti all’ENI per essere riuscita a raggiungere i suoi obiettivi e gli auguri ad un territorio che ne esce pesantemente penalizzato e ridimensionato sia dal punto di vista economico che sociale.
* Segretario Generale della CGIL di Sassari
8 Luglio 2011 alle 20:20
Sono pienamente daccordo con Antonio Rudas: le stesse perplessità le abbiamo avute in tanti, compresi personaggi di una certa importanza quali Guido Melis, Giuliano Murgia, Tore Corveddu ecc. Aver isolato la CGIL di Sassari, che in questa materia ha le idee chiare, è stata un’operazione imperdonabile. Ma questa volta le persone e le istituzioni che se ne sono assunte la responsabilità ne devono rispondere alle loro organizzazioni, ai loro partiti e al territorio che ne risulterà pesantemente e irrimediabilmente penalizzato.
8 Luglio 2011 alle 23:42
Questa operazione di Porto Torres, attraverso il protocollo ENI-Novamont, si sta predisponendo con prospettive non certo incoraggianti. Sicuramente, nel suo complesso, non dal punto di vista occupazionale. In maniera per lo meno controversa e discutibile sotto l’aspetto ambientale. Ci sembra in realtà che un ampio fronte istituzionale e sindacale stia abbandonando nei fatti la classe operaia turritana. La scarsa presenza dal bacino sassarese alla forte manifestazione sindacale di Abbasanta è un segnale preoccupante ed eloquente. Ci ripromettiamo di continuare ad intervenire su questo aspetto, e invitiamo ad ulteriori commenti e interventi chi ha a cuore questi problemi.
9 Luglio 2011 alle 11:10
Condivido molte delle perplessità sollevate da Antonio e ritengo che la classe politica di questo territorio non debba rimanere ai margini della questione, ma farsi carico del problema con qualunque mezzo, cercando di coinvolgere il più possibile anche i cittadini ed i lavoratori (i pochi rimasti!!) di qualunque ambito produttivo, non ultimi, coloro che lavorano e coltivano la nostra terra.