Vecchie storie di padroni e di lavoratori
16 Marzo 2011Manuela Scroccu
Un uomo di 73 anni piange fuori dallo stabilimento di Mirafiori, stringendo tra le mani un fazzoletto a quadri. Con la voce rotta dalle lacrime, sta cercando di dire “che gli operai hanno bisogno di lavoro e quindi è giusto che facciano di tutto per tenerselo, ma non è che uno può minacciare un giorno sì e l’altro pure di trasferire tutto in Argentina o in Canada, perché così si manca di rispetto ai suoi dipendenti”. Attorno a lui la bolgia degli operai in conflitto, i sostenitori del sì e i membri del comitato del no che si fronteggiano con durezza divisi dal referendum sull’accordo per il rilancio dello stabilimento Fiat di Mirafiori, firmato il 23 dicembre 2010. Si sentono in sottofondo i toni accesi, le reciproche accuse, poi torna una parvenza di calma. Il video finirà su youtube e il signor Antonio Agostino, operaio Fiat in pensione che voleva portare la sua solidarietà ai suoi ex compagni di lavoro, diventerà il simbolo della vicenda Fiat e della sofferenza degli operai. Un simbolo di umiliazione, di dignità svilita. Lacrime che sanno di sconfitta, quella di chi credeva di essersi conquistato un futuro migliore, affrancato dal bisogno e dal ricatto del potente e che si è risvegliato bruscamente in un mondo di nuovi padroni del vapore con il maglioncino da classe media ma non per questo meno rapaci. Nei film di pirati c’è sempre un momento in cui i prigionieri sono messi di fronte a una scelta: essere uccisi subito oppure saltare dalla passerella issata sul ponte con la quasi certezza di morire annegati o essere divorati dai pesci prima di riuscire a toccare la terraferma. Gli operai che abbiamo visto scendere dagli autobus e varcare i cancelli di Mirafiori, e prima di Pomigliano, avevano le facce di quei condannati nei vecchi film di bucanieri, chi spaventata, chi composta e dignitosa, ma su tutte poteva essere letta la consapevolezza, comunque sarebbe andata, di essere su una passerella traballante sopra un mare brulicante di squali. Marchionne “il maglionato”, poco prima del referendum di Pomigliano, al termine della cerimonia di conferimento del master honoris causa del Centro Universitario di Organizzazione Aziendale al governatore di Bankitalia Mario Draghi, così parlava ai giornalisti intervenuti: “Qui stiamo facendo discussioni sui giornali, in tv su principi d’ideologia che ormai non hanno più corrispondenza con la realtà. Parliamo di storie vecchie di 30, 40, 50 anni fa, di padrone contro il lavoratore: cose che non esistono più”. Era lo stesso Marchionne che ripeteva che Pomigliano era un caso a sé e non un modello da estendere a tutta la Fiat. Quello che accusava i lavoratori di assenteismo e di disertare le linee di produzione per una partita di calcio. Quegli stessi operai della Fiat che abbiamo visto camminare a testa bassa fuggendo lo sguardo avido delle telecamere, con il volto scolpito da un dolore antico, fatto di sconforto e sopraffazione per non aver trovato il coraggio di opporsi al ricatto. I lavoratori sapevano benissimo qual era la posta in gioco, sia a Pomigliano sia a Mirafiori: da una parte la sopravvivenza di diritti importanti conquistati con lotte sindacali di anni e decenni, dall’altra la sopravvivenza del posto di lavoro, spesso l’unica fonte di reddito per sè e la propria famiglia. E sapevano anche di essere soli, abbandonati da un governo incapace di essere mediatore tra mondo imprenditoriale e quello del lavoro, inadeguato nel suo ruolo di garante dei diritti di tutti, tanto da schierarsi apertamente con la dirigenza Fiat, paventando futuri spostamenti in massa delle imprese verso altri paesi più “convenienti”. L’azienda stessa, per bocca del suo pluriosannato amministratore delegato, non ha mai avuto bisogno di nascondere che, se il contratto imposto dall’azienda fosse stato respinto dai dipendenti con un no al referendum, la fabbrica sarebbe stata chiusa e trasferita altrove. Nonostante il palese ricatto e le pressioni sugli operai, alla fine il plebiscito pro Marchionne non c’è stato. A Pomigliano hanno vinto i sì con il 63,4%, ma i voti contrari sono stati il 36%, sicuramente più di quanto la Fiat si aspettasse. A Mirafiori il referendum è passato di un soffio, in quella che è stata definita la lunga notte, con il 54% dei si e il voto contrario, pressoché compatto, di tutti quei lavoratori che si spezzano la schiena e si usurano i muscoli nelle catene di montaggio. E’ stata una lezione di grande dignità che ha riscattato le lacrime e l’umiliazione, un atto di vera e propria resistenza contro un capitalismo sempre più famelico, alimentato in Italia dal vuoto della politica e da una classe dirigente che vorrebbe cancellare ogni regola. A Marchionne, che dall’America li esortava con fare paternalistico ad avere “fiducia nel futuro e in loro stessi”, gli operai della Fiat hanno mostrato che quel futuro non può prescindere dal rispetto dei loro diritti.
Manuela Scroccu