Venezuela. Petrolio e non solo
16 Febbraio 2019[Maurizio Matteuzzi]
Lo storico Howard Zinn ha contato 103 interventi militari USA nel mondo fra il 1798 e il 1895, un calcolo che non tiene conto di tutti quelli – un’infinità – nel corso del ‘900 e neppure di quello auspicato dal futuro presidente Theodore Roosevelt, allora Assistente segretario alla Marina, che in una lettera del 1897 scriveva di “sperare in una qualsiasi guerra perché credo che questo paese ne abbia bisogno”. In effetti l’anno dopo, 1898, gli Stati uniti dichiararono guerra alla Spagna, naturalmente, parole di Roosevelt, sia in nome “dell’umanità e per il bene dei cubani” sia come “ulteriore passo verso la completa liberazione dell’America dal dominio europeo”.
Sono passati 120 anni e lo scenario è ancora lo stesso. Perfino le parole – la narrazione, come si usa dire adesso – sono praticamente le stesse. Venezuela, gennaio-febbraio 2019. Il paese deve essere liberato dal giogo chavista, con qualsiasi mezzo, sia in nome dei diritti umani e per il bene dei venezuelani, sia come ulteriore passo verso la completa liberazione dell’America latina dalla macchia rossa del quindicennio di governi di sinistra o quantomeno progressisti , e dalla crescente interferenza di Cina e Russia.
E’ la riproposizione della vecchia Dottrina Monroe, enunciata nel 1823 e attualizzata alle condizioni del secolo XXI. Con una batteria di ultradestri già schierata – Duque e il suo burattinaio Uribe in Colombia, Macri in Argentina, Bolsonaro in Brasile, Piñera in Cile – Washington guarda al Venezuela chavista come all’ultima pedina del domino da abbattere (poi non resteranno che Cuba e Bolivia in attesa di “scoprire” il Messico di López Obrador) prima del ritorno dell’America latina all’ovile del cortile di casa.
Petrolio, come sempre. Ma non solo. Dopo l’auto-etero-proclamazione a presidente “incaricato”, il 23 gennaio scorso, del carneade Juan Guaidó (un pollo d’allevamento ben conosciuto dalla CIA e dal NED, National Endowment for Democracy, ma sconosciuto al mondo esterno e, secondo un sondaggio di una settimana prima dell’auto-etero-proclamazione, all’81% dei venezuelani), il Venezuela corre sul filo. E più passa il tempo, più quel filo rischia di spezzarsi.
Ad oggi l’intervento USA, aperto e neanche più dissimulato, non è ancora al livello dell’attacco militare. Ma nei frenetici giorni successivi al 23 gennaio, mentre si moltiplicavano gli appelli al dialogo e ai negoziati, il vice di Trump, Mike Pence ha detto chiaro e tondo che ormai “non è più il tempo del dialogo ma dell’azione” e lo stesso pollo d’allevamento Guaidó per la prima volta non ha escluso il suo appoggio a un intervento militare USA (“faremo tutto quello che è necessario per salvare vite umane”: una tempo, dall’altra parte della cortina di ferro si chiamava richiesta dell’ “aiuto fraterno” di Mosca) e in un articolo sul New York Times ha scritto che è possibile finirla con il regime dell’ “usurpatore” Nicolás Maduro “con un minimo di spargimento di sangue”.
Un intervento “umanitario” a guida USA o, ancor meglio, accompagnato da un “esercito di liberazione” latino-americano sarebbe però estremamente rischioso, con ricaschi imprevedibili. Il dramma potrebbe finire in tragedia. Al momento Guaidó e chi lo manovra non vogliono sentir parlare di dialogo, mediazione o compromessi, né quelli di papa Francesco né quelli di Messico-Uruguay (il “meccanismo di Montevideo” abortito sul nascere,) né quelli proposti dal segretario dell’ONU António Guterres. Vogliono tutto e subito. Maduro si dice pronto al dialogo per guadagnare tempo, offre elezioni per l’Assemblea nazionale (già in mano all’opposizione dal 2015) ma rifiuta di rigiocarsi il mandato presidenziale del maggio 2018.
Ancora non è chiaro a chi giovi il tempo. Agli USA (con annessa appendice Guaidó) per portare a termine lo strangolamento? A Maduro per disvelare fino in fondo la natura golpista e il marchio tardo-colonialista dell’operazione 23 gennaio? Di certo non alla gran massa dei venezuelani, stremati da anni di guerra civile strisciante, penuria, iper-inflazione, violenza, boicottaggi.
Ma è altrettanto certo che, almeno finora, in Venezuela l’opposizione, golpista e no, da sola non ce la può fare con il regime, più o meno buono che sia, avviato vent’anni fa da Hugo Chávez. Maduro non si è dimostrato all’altezza del suo predecessore. La sua politica sicuramente e probabilmente anche la sua etica possono, e in buona misura devono, essere messe in discussione. Ma lui rimane il presidente costituzionale eletto in elezioni considerate passabilmente pulite da gente come l’ex premier spagnolo Zapatero e l’ex-presidente USA Carter, non proprio estremisti rossi.
Il resto è golpismo (“un golpe è un golpe”, ha detto Alfred de Zayas, rapporteur dell’ONU in Venezuela), neo-colonialismo allo stato puro (Noam Chomsky), vecchia e già vista “storia di regime change” (Roger Waters, il fondatore dei mitici Pink Floyd). Resi ancor più insopportabili dalla penosa subalternità agli USA di Trump, Pence, Bolton, Abrams, mostrata da almeno 20 dei 28 paesi della Unione europea subito corsi ad arruolarsi fra quella sessantina che hanno riconosciuto il golpe.
(Una parentesi sull’Italia. Che sta a metà, che come ha scritto spiritosamente qualcuno apre le porte ai golpisti ma non ancora le braccia, l’Italia del sì-però-no e del no-però-sì. Con Mattarella che spinge tornando al 1999, quando era ministro della difesa del governo D’Alema e mandò i caccia italiani targati NATO a bombardare la Serbia, e facendo il Napolitano del 2011 che forzò un recalcitrante Berlusconi a partecipare all’avventura libica contro Gheddafi. Con il “sovranista” Salvini che fa a chi ce l’ha più duro con la “sinistra” alla Renzi. E con almeno una parte dei Cinquestelle che per una volta assumono una posizione ragionevole. Chiusa parentesi.
In Venezuela, ora come ora gli scenari possibili sono tre: una rivolta delle forze armate nel caso gli USA riescano a rompere il cordone ombelicale che le lega al chavismo; una (improbabile) rinuncia di Maduro per l’insostenibilità delle pressioni politiche e delle sanzioni economiche internazionali; un intervento militare straniero sul tipo di quello del 1989, eufemisticamente definito “chirurgico” (tremila morti), con cui gli USA invasero Panama e catturarono Manuel Noriega, ex agente della CIA caduto in disgrazia.
Ma il Venezuela non è Panama. E Chávez non era Noriega. A meno di una implosione del regime, il rischio di una guerra civile, probabilmente sanguinosa, è reale. Si vedrà allora se i pruriti umanitari di Stati Uniti ed Europa in difesa della popolazione venezuelana assoggettata al chavismo finiranno come nello Yemen dove i sauditi affamano e sterminano a man salva la popolazione nel silenzio generale (forse perché le vittime sono arabi e le armi all’Arabia saudita gliele vendiamo noi occidentali).